Tra i vari amministratori, anche di fatto, vige il regime dalla responsabilità solidale

Di Maurizio MEOLI

L’ordinanza n. 1516 della Cassazione, depositata ieri, ricapitola taluni interessanti aspetti della responsabilità degli amministratori (di fatto) delle società (nella specie, in particolare, si trattava di una srl).

Innanzitutto, appare opportuno ricordare come la disciplina della responsabilità degli amministratori delle società di capitali sia applicabile anche a coloro i quali si ingeriscano nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita, da parte della società, così individuandosi il cosiddetto amministratore di fatto (cfr. Cass. nn. 6719/2008 e 2586/2014).
L’amministratore di fatto di una società di capitali, seppure privo di un’investitura formale, esercita, sotto il profilo sostanziale, nell’ambito sociale, un’influenza che trascende la titolarità delle funzioni, con poteri analoghi, se non addirittura superiori, a quelli spettanti agli amministratori di diritto; sicché può concorrere con questi ultimi a cagionare un danno alla società attraverso il compimento o l’omissione di atti di gestione (cfr. Cass. n. 21567/2017).

Ai fini del riconoscimento della qualità di amministratore di fatto è necessario che l’ingerenza nella gestione della società, attraverso le direttive e il condizionamento delle scelte operative, non si esaurisca nel compimento di atti eterogenei e occasionali.

Non è sufficiente – osserva, quindi, la decisione in commento – il compimento episodico e frammentario di singoli atti gestori, essendo necessario che le funzioni gestorie effettivamente svolte dall’estraneo si traducano in un’attività; vale a dire nel compimento stabile e sistematico, continuo e protratto per un periodo di tempo rilevante di una pluralità di atti tipici dell’amministratore. Si tratta di una puntualizzazione delle indicazioni fornite in materia dai vari precedenti citati, che appaiono soffermarsi, genericamente, sulla “sistematicità” dell’ingerenza (Cass. nn. 9619/2009 e 9795/1999). In taluni di essi, peraltro, si prende in considerazione anche un non meglio definito carattere di “completezza” dell’attività gestoria (cfr. Cass. nn. 21730/20204045/2016 e 28819/2008).
A ogni modo, a fronte di ciò, nel caso di specie, è considerata correttamente ravvisata l’amministrazione di fatto in capo al soggetto che era stato riconosciuto gestore della società da talune univoche testimonianze, che aveva sottoscritto l’atto di vendita dell’unico (e rilevante) bene della società e che risultava aver provveduto ad alcune movimentazioni extracontabili (in particolare, emergeva l’apposizione della propria firma su un assegno bancario riferibile alla società e di considerevole importo).

In caso di fallimento della società, poi, si ribadisce come il curatore fallimentare abbia legittimazione attiva unitaria, in sede penale come in sede civile, all’esercizio di qualsiasi azione di responsabilità sia ammessa contro gli amministratori di qualsiasi società, anche per i fatti di bancarotta preferenziale commessi mediante pagamenti eseguiti in violazione del pari concorso dei creditori (par condicio creditorum).

Non è corretto, infatti, ritenere che il pagamento preferenziale possa recare danno solo ai singoli creditori rimasti insoddisfatti, ma non alla società, in ragione della neutralità dell’operazione per il patrimonio sociale (che vede diminuire l’attivo in misura esattamente corrispondente alla riduzione del passivo conseguente all’estinzione del debito). Il pagamento preferenziale in una situazione di dissesto può comportare una riduzione del patrimonio sociale in misura anche di molto superiore a quella che si determinerebbe operando nel rispetto del principio del pari concorso dei creditori. Ciò in quanto la destinazione del patrimonio sociale alla garanzia dei creditori va considerata nella prospettiva della prevedibile procedura concorsuale e, quindi, della relativa “falcidia” (Cass. SS.UU. n. 1641/2017).

Si precisa, infine, che la responsabilità degli amministratori di società, anche quando si tratti di chi abbia partecipato in via di mero fatto alla gestione amministrativa e contabile della stessa, presenta carattere solidale e, in quanto tale, consente al curatore del fallimento di agire in giudizio nei confronti di ciascuno dei responsabili per l’intero danno arrecato alla società e ai suoi creditori, avendo il diverso apporto causale di quanti vi abbiano concorso rilievo giuridico solo nei soli rapporti interni tra coobbligati, ai fini dell’eventuale esercizio dell’azione di regresso, e non anche nei rapporti esterni che legano gli autori dell’illecito al danneggiato (società e creditori sociali).

Ciò – conclude la decisione in commento – in forza del principio generale di solidarietà tra coobbligati, di cui all’art. 2055 comma 1 c.c., sancito espressamente in materia di responsabilità extracontrattuale, ma applicabile anche in tema di responsabilità contrattuale, che “esclude la legittimità” di una commisurazione percentuale della responsabilità di ciascuno dei concorrenti all’entità del loro contributo nella causazione dell’evento dannoso (ma, probabilmente, sarebbe stato più corretto dire che a essere esclusa non è la “legittimità”, bensì la “necessità”, di una commisurazione percentuale; cfr. Cass. n. 23581/2010).