Il presupposto necessario è costituito dalla possibile provenienza illecita dei beni utilizzati nelle operazioni

Di Maurizio MEOLI

L’obbligo del commercialista di procedere a una segnalazione di operazione sospetta (SOS) alla UIF sussiste solo quando la stessa abbia a oggetto beni che si sospetti provengano da un’attività penalmente illecita e non quando siano i beni medesimi a essere utilizzati a fini illeciti. In tale contesto nessun rilievo assumono gli indici di anomalia predisposti dal Ministero della Giustizia. Ad affermarlo è il Tribunale di Roma nella sentenza n. 17115 del 3 novembre scorso.

Nel caso di specie, al commercialista di riferimento di due società riconducibili a un’unica persona fisica (una delle quali in liquidazione e poi fallita) veniva comminata dal MEF (Dipartimento del Tesoro) la sanzione di 52.000 euro per non aver segnalato alla UIF, come sospetta, la stipula, da parte della società in bonis, di un contratto di consulenza e assistenza finanziaria con una società turca a cui seguiva, a breve distanza, in relazione a esso, il pagamento di due rilevanti bonifici (per 250.000 e per 270.000 euro) da parte della società in liquidazione. Il commercialista eccepiva l’erroneità del provvedimento perché, tra l’altro, la sanzione era stata irrogata a fronte di operazioni che non configuravano ipotesi di riciclaggio, stante la provenienza lecita della provvista, tratta dal conto corrente che la società in liquidazione utilizzava normalmente per le transazione con clienti e fornitori.

Il MEF, costituendosi in giudizio, chiedeva il rigetto dell’opposizione, dal momento che l’operazione in questione, per caratteristiche, entità e natura, nonché in ragione dei soggetti coinvolti, avrebbe dovuto indurre il professionista alla segnalazione, dovendo questo sospettare la realizzazione di condotte distrattive di risorse finanziarie in danno dei creditori sociali della società in liquidazione ed a rischio di fallimentare, con reimpiego di beni di provenienza illecita. Il tutto, peraltro, evidenziava il MEF, trovava riscontro sia negli indici di anomalia predisposti, per i professionisti, dal DM 16 aprile 2010, che negli “Schemi rappresentativi di comportamenti anomali [relativi alla] operatività connessa con le frodi fiscali internazionali e con le frodi nelle fatturazioni”, elencati nella Comunicazione UIF del 23 aprile 2012.

Il Tribunale di Roma accoglie la richiesta del commercialista e annulla il provvedimento sanzionatorio.
Si evidenzia, innanzitutto, come la disciplina di riferimento – nel frattempo mutata (il previgente art. 41 del DLgs. 231/2007 è oggi stato trasfuso nell’art. 35 del medesimo decreto) rimanendo sostanzialmente coincidente – configuri il sospetto rilevante ai fini della SOS quando siano in corso o siano state compiute o tentate operazioni di riciclaggio (o di finanziamento del terrorismo). Rispetto a essa è stato precisato come sia richiesto un mero giudizio di possibilità (non di certezza) in ordine alla provenienza delittuosa dei fondi o dei beni utilizzati (cfr. Cass. nn. 23017/2009 e 9089/2007). Una provenienza delittuosa disegnata con margini molto ampi se si considera che l’art. 2 del DLgs. 231/2007, che fornisce la nozione di riciclaggio rilevante a tali fini, si riferisce a beni provenienti da una generica attività criminosa o a una partecipazione a tale attività, rispetto ai quali, poi, sono poste in essere attività di conversione, trasferimento, occultamento, dissimulazione, ecc.

L’obbligo di SOS sussiste quindi solo se vi è il sospetto che l’operazione possa integrare in astratto un atto di tale tipo, ma in quanto preceduta da un’attività criminosa. In altri termini, è necessario che l’atto di disposizione abbia a oggetto beni o denaro che si sospetti provenire da un’attività illecita di rilievo penale.

Situazione che non è reputata ravvisabile nel caso in esame. Infatti, è vero che il professionista, consapevole della situazione sostanzialmente prefallimentare della società in liquidazione, secondo un criterio di comune diligenza, avrebbe dovuto rendersi conto, o almeno sospettare, della portata fittizia e distrattiva dell’operazione diretta a sottrarre le risorse finanziarie facenti capo alla stessa, ma tale operatività non può certo essere qualificata quale “attività di reimpiego di beni di provenienza illecita” (come ipotizzato dal MEF). In assenza di qualsiasi elemento da cui poter desumere la “provenienza criminosa” della provvista utilizzata per il pagamento del corrispettivo alla società di consulenza turca (si trattava, infatti, pacificamente, di somme trasferite da quello che era il conto corrente della società in liquidazione normalmente utilizzato per le transazioni commerciali), risulta possibile, esclusivamente, ipotizzare che la provvista in questione sia stata “destinata ad un’attività illecita” (diretta cioè alla sottrazione dei beni all’azione dei creditori, in vista del futuro fallimento).

Allora, dal momento che il presupposto per vagliare la sussistenza dell’obbligo di SOS non è la “destinazione” di una provvista verso un’attività illecita, ma la sua “provenienza” da essa, l’obbligo di segnalazione non sussiste e neppure vengono in rilievo gli indici e gli indicatori di anomalia predisposti per agevolare l’individuazione delle operazioni sospette, che tale obbligo presuppongono.