Il Tribunale di Milano sottolinea come, di per sé, tale condotta non possa dirsi abusiva

Di Maurizio MEOLI

L’assenteismo di uno dei due soci al 50% di una società che cagiona lo scioglimento della stessa per impossibilità di funzionamento dell’assemblea o per sua continuata inattività, ex art. 2484 comma 1 n. 3 c.c., non è, di per sé, una condotta illecita e potenzialmente dannosa né nei confronti della società, in capo alla quale non è configurabile un interesse proprio alla sua sopravvivenza, né nei confronti dell’altro socio, anche se oggettivamente in contrasto con le sue diverse aspirazioni, potendo essere ricondotta anche ad una legittima decisione di disinvestimento in una società valutata come priva di prospettive.
Ad affermarlo è il Tribunale di Milano nella sentenza del 4 febbraio 2021.

Nel caso di specie, in una srl tra due fratelli al 50%, il disaccordo sulla gestione della società, da tempo in perdita, induceva uno dei due a disertare le riunioni assembleari concretizzando, per tal via, la causa di scioglimento di cui all’art. 2484 comma 1 n. 3 c.c. e, di riflesso, a chiedere, in sede di volontaria giurisdizione, la nomina di un liquidatore. L’altro fratello, allora, ritenendo abusiva una simile condotta, invocava in giudizio il risarcimento dei danni corrispondenti: ai costi della liquidazione; alla differenza tra il valore di mercato degli immobili sociali e quello di realizzo; all’ammontare dei canoni di locazione non percepiti dalla società per l’impossibilità di locare gli immobili una volta sopravvenuta la liquidazione; alle spese legali sostenute per resistere al ricorso in sede di volontaria giurisdizione; alla differenza tra il valore delle quote societarie all’inizio della liquidazione e al termine della stessa. La richiesta di risarcimento dei danni era avanzata sia in favore della srl che di sé stesso.

Rispetto a tale richiesta i giudici milanesi sottolineano, in primo luogo, come, mentre sia da ricondurre alla responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., la richiesta di risarcimento dei danni patiti direttamente dal patrimonio del socio, quella correlata al pregiudizio subito dalla società non possa di certo essere ricondotta all’art. 2476 comma 3 c.c., che attribuisce al socio di srl la legittimazione a svolgere l’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’organo gestorio nell’interesse della società, e non attiene al caso in cui il socio faccia valere un diritto risarcitorio proprio della società nei confronti (non dell’amministratore ma) di un altro socio. In tal caso, quindi, è ravvisata un’azione surrogatoria, ex art. 2900 c.c., da parte del socio di una società in liquidazione che, essendo creditore verso la società della propria quota dell’attivo di liquidazione, può essere considerato legittimato a far valere, contro terzi, quei diritti che la società, sua debitrice, trascuri di esercitare.

Ciò premesso, la decisione in commento rigetta la domanda di risarcimento dei danni.
Si afferma, innanzitutto, come la reiterata diserzione delle assemblee da parte di uno dei due soci al 50%, quale condotta determinante il verificarsi della causa di scioglimento ex art. 2484 comma 1 n. 3 c.c., sia del tutto assimilabile a quella dei soci di maggioranza votanti in sede assembleare per lo scioglimento anticipato dell’ente.

A fronte di ciò, alla luce dei principi sanciti dalla sentenza n. 27387/2005 della Cassazione, si osserva come, non essendo configurabile un interesse proprio della società alla sua sopravvivenza, l’avere il socio causato, con la propria condotta, lo scioglimento dell’ente non possa, di per sé, essere qualificata come vicenda abusiva nei confronti della società, soggetta alla volontà dei soci di porla in scioglimento anticipato (ciò, peraltro, renderebbe anche del tutto irrilevante la verifica della ricorrenza di uno specifico intento di scioglimento dell’ente in capo al socio).

Nella suddetta condotta, inoltre, pur essendo incontestato il conflitto tra i fratelli, neppure è ravvisabile una esclusiva e abusiva intenzione del fratello assenteista di danneggiare l’altro. Non necessariamente, infatti, in questo modo di agire è da ravvisare l’intento di appropriarsi degli immobili sociali a prezzi vili (come confermato dal fatto che gli stessi erano stati venduti nel corso della procedura di liquidazione a seguito di procedure competitive), piuttosto che una legittima volontà di disinvestimento, contrastante con il diverso orientamento del fratello circa l’opportunità di lasciare in vita l’ente, ma giustificata dal non contestato andamento negativo della società e dalle diverse visioni quanto alla sua gestione.

Peraltro, conclude la decisione in commento, dal principio in base al quale la società non ha, di per sé, un interesse alla propria sopravvivenza deve anche ricavarsi la non configurabilità come pregiudizio per l’ente di tutte le conseguenze, per così dire, “naturali” della liquidazione in termini di costi della stessa, di realizzo degli immobili sociali a valori minori di quelli astrattamente valutati da perizie di stima, di ammontare di canoni di locazioni non percepiti data la fase liquidatoria. Di conseguenza, anche per tale profilo, le pretese risarcitorie del socio attore in favore della società sono considerate infondate.