La Cassazione esamina il caso di un commercialista che aveva attestato la circostanza, contraria al vero, all’ODCEC con dichiarazione sostitutiva
Le informazioni false od omesse da parte del professionista all’Ordine di appartenenza possono integrare una falsità penalmente rilevante. È stata così confermata dalla Cassazione (sentenza n. 45238 depositata ieri) la condanna per il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, così come previsto dall’art. 483 c.p., ad un soggetto che aveva attestato di non avere carichi pendenti, attraverso una dichiarazione sostitutiva presentata all’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili a cui era iscritto (dichiarazione resa ai sensi e per gli effetti degli artt. 46 e 47 del DPR 445/2000). La circostanza dichiarata era risultata contraria al vero, atteso che da accertamenti successivi risultavano a suo carico due procedimenti penali pendenti all’epoca della resa dichiarazione.
Stante l’incontestata natura di ente pubblico non economico dell’Ordine professionale di appartenenza, la condotta integra senz’altro – secondo i giudici di legittimità – la fattispecie di cui al citato art. 483 c.p. posto che le dichiarazioni sostitutive, attestanti stati e qualità personali, consistono in dichiarazioni sottoscritte dall’interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni rilasciate da un ente dotato di capacità certificativa (il casellario giudiziale, nella specie). Da ciò deriva la considerazione per cui l’atto nel quale tali dichiarazioni sono trasfuse è destinato a provare la verità dei fatti attestati e a produrre specifici effetti disciplinati dal regolamento dell’Ordine professionale.
Viene altresì ricordato che l’autocertificazione, resa ai sensi dell’art. 46 del DPR 445/2000, riveste la funzione di provare i fatti attestati, evitando al privato l’onere di provarli con la produzione di certificati (nella specie il certificato dei carichi pendenti): in tal modo essa collega l’efficacia probatoria dell’atto al dovere del dichiarante di dichiarare il vero.
Il delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico è configurabile solo nei casi in cui una specifica norma giuridica attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero (Cass. SS.UU. n. 28/2000). In proposito, la giurisprudenza non ha mai avuto dubbi nel ritenere che tale specifica norma possa essere individuata nell’art. 46 del DPR 445/2000 (si veda, tra le altre, Cass. n. 4970/2012).
Si noti che, nel caso in esame, la difesa invocava il fatto di trovarsi davanti ad un’ipotesi di c.d. “falso inutile” in quanto la mendace dichiarazione resa sarebbe stata irrilevante, ai fini della conservazione da parte del ricorrente dell’iscrizione all’Albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Il “falso inutile” è una categoria dogmatica che risponde al principio di offensività del diritto penale, secondo cui non sarà penalmente rilevante quella condotta che in concreto non comporta alcuna lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato.
La Cassazione, tuttavia, non concorda con tale ricostruzione. L’innocuità del falso attiene alla tipicità del fatto materiale e non va confusa con la sua presunta inutilità, profilo che, in astratto, potrebbe al più attingere l’ambito della prova del dolo del reato: ciò in quanto l’innocuità del falso riguarda esclusivamente l’inesistenza dell’oggetto tipico della falsità di modo che questa riguardi un atto assolutamente privo di valenza probatoria a prescindere dall’uso che dell’atto oggetto di falsificazione venga fatto. In ogni caso ai reati di falso sono estranee le nozioni di danno e di profitto, essendo sufficiente, per il perfezionamento delle rispettive fattispecie, il mero pericolo che dalla contraffazione o dall’alterazione possa derivare alla fede pubblica, che è l’unico bene giuridico protetto dalle norme incriminatrici dettate in materia.
Nello stesso senso, viene esclusa la particolare tenuità del fatto invocata ai fini della causa di non punibilità introdotta dall’art. 131-bis c.p.
Da un lato, vengono evidenziati i profili di rilevanza pubblicistica connessi all’esercizio della professione di commercialista che rendono “non esiguo” il pericolo discendente dalla condotta, evocata dal dovere di rendere all’ordine di appartenenza un’informazione veritiera circa l’assenza di pregiudizi penali. D’altra parte, già i giudici di merito avevano concluso per una non lieve intensità del dolo che aveva assistito la condotta, avendo tale professionista riportato nella stessa giornata in cui aveva reso la dichiarazione mendace una condanna in primo grado per bancarotta fraudolenta.