Necessario verificare l’esistenza della consapevolezza delle operazioni compiute e di tutte le circostanze eventualmente rivelatrici della finalità di evasione

Di Maria Francesca ARTUSI

L’attività di illecita somministrazione di manodopera si muove spesso di pari passo con i reati connessi alla falsa fatturazione.
La sentenza n. 32877, depositata ieri dalla Corte di Cassazione, prosegue un accertamento relativo ad una rete di società nel settore turistico e della ristorazione tra le quali venivano stipulati fittizi contratti di appalto di servizi ai sensi dell’art. 29 del DLgs. 276/2003 (si veda “Sequestro per fatture false e intermediazione illecita di manodopera” del 5 marzo 2021).

Si trattava, cioè, di una attività di illecita somministrazione di manodopera da parte di tale società in favore di altre imprese con emissione di fatture non corrispondenti al vero. In particolare, dall’accertamento svolto dai finanzieri emergeva che, nella contabilità di due srl amministrate da un medesimo soggetto, erano state registrate, con riferimento a diversi anni di imposta fatture emesse dalla società già indagata di cui sopra, in forza delle quali avevano potuto fruire di un consistente credito IVA.

In pratica, la prima società operava come una “cartiera evoluta” consentendo alle società utilizzatrici delle fatture emesse di abbattere indebitamente il reddito di esercizio mediante imputazione del costo dei servizi, rappresentato dal costo del lavoro, in modo da detrarre l’IVA esposta nelle fatture in esame, usufruendo così di un credito che altrimenti le due società non avrebbero maturato.

Sotto la forma negoziale del contratto di appalto, tali soggetti avevano in realtà dissimulato una illecita intermediazione di manodopera, al fine di beneficiare del diverso regime impositivo e incamerare il relativo profitto, atteso che, in materia di IVA, il c.d. “prestito di personale” o “distacco” non rileva ai fini dell’imposta. Infatti, il datore di lavoro del dipendente distaccato (somministrato), poiché resta in essere il rapporto lavorativo, continua a corrispondere la retribuzione al proprio dipendente e a richiedere al terzo utilizzatore soltanto il rimborso della spesa sostenuta nel periodo di distacco, configurandosi in questi casi non un vero e proprio pagamento di corrispettivo, ma solo un rimborso di spese sostenute, cioè un’operazione esclusa dall’imposizione IVA ex art. 15 del DPR 633/1972.

Nel caso di specie, l’emissione delle fatture contestate, solo formalmente imputate al contratto di appalto, ha consentito alle altre società di generare dei costi aziendali da inserire nelle dichiarazioni annuali tra gli elementi passivi, fondandosi il giudizio sulla natura fittizia dei contratti di appalti sottostanti alle fatture sul rilievo che erano i committenti a indicare quali fossero i soggetti da assumere, che spesso era stati già alle dipendenze della committente e che erano in alcuni casi anche ignari dell’avvenuto passaggio datoriale, essendo inoltre le attrezzature necessarie di proprietà della società committente, che dunque assumeva di fatto l’organizzazione e la gestione dell’attività dei dipendenti dell’appaltatore, rispetto al quale non era pertanto configurabile il tipico rischio di impresa.

Per i giudici di legittimità risulta legittimo l’inquadramento del fatto nello schema normativo delineato dall’art. 2 del DLgs. 74/2000, non essendo indifferente ai fini IVA l’indicazione di un soggetto diverso da quello che aveva effettuato la fornitura. Né rileva il fatto che le fatture costituiscano la “copertura” di prestazioni acquisite da altri soggetti, ciò in quanto l’intero meccanismo dell’IVA poggia sul presupposto che il tributo sia versato a chi ha eseguito prestazioni imponibili e il versamento dell’IVA a un soggetto non operativo o, comunque, fittiziamente interposto apre la strada al recupero indebito dell’imposta stessa.

Si noti, tuttavia, che il sequestro viene annullato con rinvio dalla Cassazione non ritenendosi adempiuta una concreta indicazione degli indici sintomatici dell’elemento soggettivo del reato che non sono desumibili soltanto dalla “veste di imprenditore esperto”.

Pur essendo, infatti, ammissibile il dolo eventuale anche in sede cautelare, questo comporta comunque la necessità di una verifica adeguata sull’esistenza della consapevolezza delle operazioni compiute e di tutte le circostanze eventualmente rivelatrici della finalità di evasione, ivi compresa la compiuta individuazione del profitto.