La successiva alienazione della partecipazione integra l’onere previsto dall’art. 1227 comma 2 c.c.
La Cassazione, nella sentenza n. 18770/2021, ha enunciato i seguenti principi di diritto: il carattere patrimoniale del danno, risarcibile ai sensi del combinato disposto degli artt. 1223 e 2056 c.c., riguarda non solo l’accertamento di un saldo negativo nello stato patrimoniale del danneggiato, ma anche l’incidenza in concreto di una diminuzione dei valori e delle utilità di cui il medesimo può disporre; di conseguenza, il carattere della patrimonialità non implica sempre e necessariamente un esborso monetario, né una perdita di reddito o prezzo, ben potendo configurarsi anche come diminuzione dei valori o delle utilità economiche del danneggiato.
In materia societaria, poi, in caso di illecito consistente nell’abuso di maggioranza, concretatosi in un aumento del capitale sociale non sottoscrivibile dal socio di minoranza per il suo preesistente stato di impotenza finanziaria, il danno risarcibile si produce, prima dell’alienazione dei titoli a un terzo a prezzo inferiore al loro valore reale, nel momento e per effetto della delibera di aumento del capitale sociale, in conseguenza della sostanziale svalutazione del valore delle partecipazioni societarie dal medesimo detenute, derivante dall’aumento di capitale sociale deliberato dalla maggioranza.
Per addivenire a tali conclusioni, la Suprema Corte parte dalla c.d. “teoria della differenza”, in materia di risarcimento del danno, secondo la quale il danno da risarcire ai sensi dell’art. 1223 c.c. – norma fondamentale in tema di quantificazione del danno risarcibile e applicabile, grazie al rinvio operato dall’art. 2056 c.c., anche all’illecito aquiliano – è da individuare nella differenza tra l’ammontare che ipoteticamente il patrimonio complessivo del danneggiato avrebbe raggiunto senza l’intervento dell’atto illecito e il suo effettivo ammontare a seguito dell’illecito stesso.
Si tratta di un’impostazione che, nel corso del tempo, ha trovato conferma nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 11629/1999), anche con riguardo alla responsabilità extracontrattuale (cfr. Cass. n. 9740/2002). Si è stabilito, in particolare, che il carattere patrimoniale del danno – risarcibile ex artt. 1223 e 2056 c.c. – riguarda non solo l’accertamento di un saldo negativo nello stato patrimoniale del danneggiato, ma anche l’incidenza in concreto di una diminuzione dei valori e delle utilità di cui il medesimo possa disporre, costituendo il patrimonio quell’insieme di beni, valori e utilità tra loro collegati sotto il profilo (e mediante un criterio) funzionale.
Ne consegue che il carattere della patrimonialità, che attiene al danno e non al bene leso dal fatto dannoso, non implica sempre e necessariamente un esborso monetario, né una perdita di reddito o prezzo, ben potendo configurarsi anche come diminuzione dei valori o delle utilità economiche del danneggiato (cfr. anche Cass. n. 16585/2019 e Cass. n. 29864/2011, che, nell’ipotesi dell’intermediario che dia corso all’acquisto di prodotti finanziari ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi nei confronti del cliente – e, quindi, in presenza di un rischio che presumibilmente il cliente non si sarebbe accollato – ha configurato il danno risarcibile nella riduzione del valore dei titoli, anche in assenza di successiva rivendita degli stessi; condotta che avrebbe valore solo ai fini dell’adempimento dell’onere del danneggiato di ridurre il danno, ai sensi dell’art. 1227 comma 2 c.c.).
Orientando, poi, questi rilievi sul caso di specie, la sentenza in commento sottolinea come la decisione assembleare di procedere ad un rilevante aumento di capitale viziata da un abuso dei soci di maggioranza, perché tesa al solo fine di approfittare del preesistente stato di impotenza finanziaria del socio di minoranza, costituisca, nel medesimo tempo, il momento consumativo dell’illecito e quello di produzione del danno.
Tale delibera produce, di per sé, anche prima di un’eventuale alienazione dei titoli ad un terzo a prezzo inferiore al loro valore reale, una rilevante diminuzione di valore della partecipazione, e, di riflesso, del patrimonio del socio di minoranza, per effetto della loro sostanziale svalutazione, conseguente all’ingente aumento di capitale sociale deliberato dalla maggioranza.
La diminuzione di valore di un bene – che si produce nel patrimonio di un soggetto prima della sua monetizzazione, comportandone un decremento che non si sarebbe prodotto in assenza dell’illecito – concreta, di per sé, il danno emergente ex art. 1223 c.c. Il che, nel caso di specie, trovava conferma nel fatto che il socio di minoranza – proprio in esito alla decisione di aumento di capitale sociale – era stato indotto ad una vendita “forzata” della partecipazione e/o dei diritti di opzione alla sottoscrizione degli aumenti di capitale.
A fronte di ciò, la successiva attività tesa ad alienare al meglio la partecipazione, sebbene ad un prezzo notevolmente inferiore al suo valore reale, veniva a costituire non già il momento di produzione del danno, ma l’adempimento dell’onere, gravante sul danneggiato, di ridurre le conseguenze dannose dell’illecito (ex art. 1227 comma 2 c.c.), costituito – nella specie – dall’abuso di maggioranza perpetrato tramite il deliberato, ingente, aumento di capitale sociale.