La Cassazione ha condannato un soggetto formalmente legato a una società fallita in virtù di un contratto a progetto
L’amministratore “di fatto” rientra pacificamente tra i soggetti che possono rispondere dei reati di bancarotta societaria, nonché dei reati fiscali commessi in favore della persona giuridica.
L’art. 2639 comma 1 c.c. – come modificato dal DLgs. 61/2002 – equipara al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge chi è “tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata” ovvero chi “esercita in maniera continuativa e significativa i poteri tipici inerenti alla stessa qualifica o funzione”. Sebbene tale norma sia contenuta nell’ambito dei reati societari, essa è stata da subito ritenuta applicabile anche ad altri settori propri dell’ambito del “diritto penale dell’economia”, con particolare riguardo ai reati di bancarotta.
La giurisprudenza ha enucleato nel tempo una serie di criteri di individuazione per tale ruolo, ma l’accertamento va compiuto case by case alla luce degli elementi concreti che emergono dal procedimento.
In questo solco si muove la sentenza n. 3772 della Corte di Cassazione, depositata ieri. Un soggetto, formalmente legato a una società fallita in virtù di un contratto a progetto, è stato condannato per i reati di bancarotta fraudolenta e di ricorso abusivo al credito (artt. 216, 223 e 218 Del RD 267/42), nonché per i reati tributari di emissione di fatture false, distruzione e occultamento delle scritture contabili e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (artt. 8, 10 e 11 del DLgs. 74/2000).
Secondo i giudici, infatti, il ruolo di costui non poteva in alcun modo essere ricondotto a quello di un mero consulente, in considerazione delle condotte e dei comportamenti concretamente assunti dal medesimo in svariate importanti occasioni che avevano interessato la vita della società.
Tra gli esempi portati nelle motivazioni si evidenziano l’acquisizione di un contratto di leasing della sede della società garantito con cambiali emesse da altra società in cui il soggetto in questione era amministratore, nonché l’entità del compenso stabilito in favore di costui nettamente superiore a quello dell’amministratore di diritto. Inoltre, al di là della mancanza di firma sui conti correnti – di pertinenza dell’amministratore di diritto ritenuto non mera testa di legno ma a pieno titolo compartecipe – i comportamenti assunti dal presunto consulente sono stati ritenuti indicativi di un suo interesse personale nella gestione della società, andando ben oltre il rapporto di consulenza che gli si imputava dal punto di vista formale e travalicando nell’esercizio di poteri tipici inerenti alla qualifica di amministratore di fatto.
Si noti che la società in questione era coinvolta in un ambito di attività illecite poste in essere con il fine di frodare l’Erario, sul solco delle tipiche “frodi carosello”. In modo strettamente connesso all’attività di “cartiera”, è stata altresì posta in essere una serie di operazioni bancarie sui conti sociali, anche verso società straniere, che hanno poi portato alla decozione della srl in questione.
In proposito, viene precisato che può rilevare ai fini della bancarotta qualunque somma di danaro entrato a far parte a pieno titolo del patrimonio della società poi fallita, indipendentemente dalla eventuale causa illecita sottostante. Sono, in tal senso, da considerare distrattive anche le operazioni di ingiustificata disposizione su beni della società eventualmente provenienti da reato, sul presupposto che qualunque utilità, anche quella illecitamente conseguita, una volta entrata a far parte del patrimonio dell’ente, si aggiunge alla massa attiva che lo compone e che rappresenta la garanzia posta a tutela del ceto creditorio (circostanza che, nel caso di specie, era resa palese dal concomitante fatto che anche proprio grazie a tali flussi di danaro la società era riuscita a creare l’apparenza di una consolidata movimentazione bancaria sulla cui base riusciva a ottenere ulteriore credito).
In tema di reati fallimentari, infatti, la provenienza illecita dei beni non esclude il delitto di bancarotta per distrazione, sia che si tratti di beni fungibili, e quindi confusi nel patrimonio del fallito destinato alla soddisfazione dei creditori, sia che si tratti di beni infungibili, e quindi formalmente distinti dal patrimonio del fallito.
La sentenza in commento ricorda altresì che è possibile il concorso tra la bancarotta fraudolenta e il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, alla luce della diversità del soggetto-autore degli illeciti (nel primo caso, tutti i contribuenti, nel secondo, soltanto gli imprenditori falliti) e del differente elemento psicologico tra i reati: rispettivamente, dolo specifico e dolo generico (Cass. n. 35591/2017).
Quanto al delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del DLgs. 74/2000), questo ha natura di reato istantaneo che si consuma nel momento in cui l’emittente perde la disponibilità della fattura, non essendo richiesto che il documento pervenga al destinatario, né che quest’ultimo lo utilizzi (cfr., tra le tante, Cass. n. 25816/2016).