Il CNDCEC ha proposto sin dall’introduzione di tale previsione una modifica

Di Andrea FOSCHI

Pubblichiamo l’intervento di Andrea Foschi, Consigliere CNDCEC con delega alla crisi di impresa.
Credo sia per me doveroso intervenire, quale delegato di area del CNDCEC, nel dibattito generato dai “titoli” apparsi su due quotidiani nazionali.
In tali articoli si riportano affermazioni ridondanti e imprecise riguardo la riduzione dei compensi dei professionisti nell’ambito delle attività relative la crisi di impresa. Si insiste soprattutto sulla mancata comunicazione, sulla necessità di informare tempestivamente e di intervenire sempre e comunque nel dibattito, ma non pensavo che le modifiche normative apportate avessero ricadute mediatiche così importanti, in quanto generate da una lettura non corretta del dettato normativo.

La situazione venutasi a creare mi impone di intervenire, anche in risposta agli Ordini e ai colleghi che hanno rivolto le loro critiche direttamente al Ministero competente.
La fattispecie in oggetto nasce dal combinato disposto degli artt. 8 e 9 del testo del decreto redatto dalla “Rordorf2” e depositato nella sua stesura definitiva il 22 dicembre del 2017.

All’art. 8 “Disciplina dei costi professionali e di consulenza” veniva ipotizzata una tariffa che è stata successivamente espunta, mentre all’art. 9 “Prededucibilità dei crediti” venivano elencati i crediti riconosciuti come prededucibili. Già allora la norma prevedeva che oltre ai crediti così qualificati per Legge venivano considerati i crediti professionali sorti in funzione degli accordi di ristrutturazione dei debiti e della domanda di concordato ma nei limiti del 75% condizionata alla apertura o omologa.

Sin da allora tale previsione è stata contestata dal Consiglio nazionale. A riprova di quanto appena affermato, nell’ultimo documento presentato dal CNDCEC per audizione alla Camera dei Deputati, 2° Commissione Giustizia riguardo all’Atto del Governo n. 175 in merito al correttivo del Codice può leggersi, infatti, quanto qui riportato in sintesi.

L’azione svolta dai professionisti è imprescindibile ed ineliminabile, non giova esclusivamente al debitore. Essa è funzionale al perseguimento del ripristino dell’equilibrio economico-finanziario, volto preliminarmente al migliore soddisfacimento dei creditori.

L’azione dei professionisti, dunque, si rende necessaria non solo nell’ottica della tutela degli interessi del debitore e dei suoi diritti, ma anche di quella degli interessi dei creditori. Egualmente può dirsi nel caso di attività professionali svolte in favore della massa su incarico degli organi delle procedure.

Secondo previsione normativa (la lettera b), comma 1, e lettera c) dell’art. 6 del DLgs. 14/2019) per i professionisti del “piano”, la prededucibilità copre solo il 75% del totale dell’ammontare del credito accertato.
Da quanto precede emerge chiaramente che, come anticipato, il codice rende tipiche le fattispecie di prededuzione e per queste mantiene ed integra il criterio della funzionalità, richiedendo che l’attività professionale sia stata prestata nell’ambito di procedimenti che abbiano un risvolto “utile”.

In altri termini, il legislatore considera non meritevoli di tutela i crediti per attività professionali che non abbiano consentito di raggiungere l’obiettivo al quale queste sono astrattamente finalizzate.
Tale impostazione non è esente da critiche proprio con riferimento all’adeguatezza della funzione che la disciplina introdotta dovrebbe assolvere.

Come visto, la prededuzione da un lato risponde all’esigenza di arginare il rischio di isolamento del debitore, dall’altro, a quella di cercare una composizione della crisi nell’ottica del miglior soddisfacimento dei creditori.
Se limitare la prededuzione ai casi di “successo” dell’iniziativa può scoraggiare azioni improvvide e condotte dilatorie poste in essere lato debitore, dall’altro rischia di ridurre eccessivamente il ricorso alle procedure di regolazione della crisi, dando luogo a svantaggi che si ripercuotono anche lato creditore.

Agli aspetti critici evidenziati, si aggiunge il fatto che il beneficio eventualmente riconosciuto al professionista è pari a solo il 75% del suo credito accertato. Questa previsione appare eccessivamente gravosa, tanto più che il professionista è chiamato ad assumersi il rischio del buon esito dell’operazione.

La nuova disciplina, dunque, non solo penalizza eccessivamente i prestatori d’opera professionale, ma rischia di compromettere le chances di recupero delle imprese in crisi, e di favorire una concorrenza al ribasso a scapito della qualità delle prestazioni. I professionisti più prudenti, infatti, saranno portati a non accettare il rischio di non vedersi corrisposto il giusto compenso, anche in situazioni che ex post potrebbero risultare di “successo”.

Per questa ragione, la Commissione del CNDCEC ha proposto di eliminare dalle lettere b) e c), del primo comma dell’art. 6, l’inciso che limita il beneficio della prededucibilità al solo 75% del credito professionale accertato.

Per altro pari discrasia la pone anche l’art. 6, comma 1, lettera a) che prescrive che sono prededucibili i crediti relativi a spese e compensi per le prestazioni rese dall’organismo di composizione della crisi di impresa e del sovraindebitamento, mentre al contrario l’art. 6, ultimo comma, dispone che non sono prededucibili i crediti per attività professionali svolte su incarico del debitore in costanza delle procedure d’allerta e di composizione della crisi, da soggetti diversi dall’OCRI.

In tal modo si finisce per lasciare il debitore sprovvisto dell’assistenza dei suoi professionisti di fiducia, i quali difficilmente accetterebbero un incarico senza la certezza di vedersi corrisposto il proprio compenso in tal modo scoraggiando il ricorso all’OCRI o alla composizione della crisi da parte del debitore.
Per le ragioni esposte si è proposto di espungere l’ultimo comma dell’art. 6.

Quanto esposto dimostra che si tratta di previsioni non nuove, per le quali il CNDCEC ha già proposto sin dalla loro introduzione una modifica.
Modifica necessaria dal momento che è “inaccettabile” una previsione normativa che abbia quale suo “presupposto” che un accordo di ristrutturazione o un concordato che non vengono omologati presuppongano una prestazione professionale non solo “non utile” ma addirittura “non corretta”, visto che il concetto di “utilità” in un mandato professionale, per sua natura un’obbligazione di mezzi, è inguardabile ed irricevibile (se non per determinare la misura un’eventuale success fee).

Nella denegata ipotesi in cui l’Esecutivo decida di non modificare il disposto normativo (già presente dal dicembre del 2017), si dovrebbe almeno prevedere espressamente la possibilità per il professionista di ricevere degli acconti (almeno per coprire le spese). In molti casi, infatti, Tribunali non accettano nemmeno la possibilità di versare degli acconti ai professionisti prima dell’omologa della procedura, chiedendone addirittura la restituzione come condizione/presupposto per la prosecuzione della stessa.

Un’ultima notazione deve, infine, essere riservata alla figura dell’“attestatore”, soggetto autonomo e indipendente per antonomasia, il cui compenso non può che restare prededucibile, pena l’impossibilità di assumere il ruolo “super partes” che la legge gli ha assegnato.

In conclusione, quindi, in nessun caso e per tutti i professionisti coinvolti in una procedura concorsuale deve parlarsi di “riduzione” del compenso, ma al più di una diversa valutazione del privilegio a seconda del risultato della procedura. Ma anche a riformulare la norma in questo modo, non può che constatarsi che trattasi di un ennesimo schiaffo ai tanti professionisti seri ed onesti che non antepongono, né hanno mai anteposto il risultato economico alla qualità del loro lavoro.