La Cassazione precisa taluni aspetti della fattispecie di cui all’art. 223 comma 2 n. 2 L. fall.

Di Maurizio MEOLI

La Cassazione, nella sentenza n. 23067/2020, torna sulle principali caratteristiche della fattispecie di cui all’art. 223 comma 2 n. 2 del RD 267/1942 – che punisce, tra gli altri, gli amministratori che abbiano cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società – affrontando il caso del socio unico/amministratore di una srl di costruzioni che aveva acquistato orologi di notevole valore con titoli della società, privi di provvista, provocando il protesto e il fallimento.

Si evidenzia, quindi, come l’amministratore abbia nei confronti della società un obbligo di fedeltà, oltre quello, imposto dall’art. 2394 c.c., di non creare dolosamente una situazione economico-finanziaria tale da rendere necessario il fallimento. Ogni violazione di tale obbligo integra un’operazione dolosa rilevante ex art. 223 comma 2 n. 2 del RD 267/1942 quando cagioni il fallimento per il tramite di un’indebita diminuzione dell’attivo, ossia un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa (cfr. Cass. n. 40998/2014).

Le operazioni dolose in questione attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa, e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale che deriva non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito perseguito (cfr. Cass. n. 47621/2014).

In tale schema rientra senz’altro la condotta dell’amministratore che impegni a proprio vantaggio, diretto o indiretto, il patrimonio sociale, causando dolosamente il fallimento con l’assunzione di obbligazioni gravanti sul patrimonio della società per importi esorbitanti rispetto alla capienza del patrimonio sociale; poiché si tratta di un atto con il quale si addebita, con valutazione ex ante, un immediato e sproporzionato sacrificio finanziario alla società, in assenza di un plausibile vantaggio economico. Si tratta, cioè, di una condotta incompatibile con la corretta esplicazione del potere di amministrazione e, pertanto, rientrante nella sfera di previsione di cui all’art. 223 comma 2 n. 2 del RD 267/1942, che sanziona, in via residuale, condotte di frode ai creditori purché causalmente correlate al fallimento dell’organismo societario e connotate da intrinseca illiceità rapportata ai criteri di corretta gestione; ovvero, più specificamente, comportamenti estranei all’interesse sociale, in cui l’organismo societario risulti strumentalmente finalizzato per scopi non consentiti dall’ordinamento (Cass. n. 11019/2007).

La previsione normativa in questione – pur contemplando due fattispecie assimilabili sotto il profilo “oggettivo”, nel senso che entrambe riguardano una condotta di soggetti qualificati che ha determinato il dissesto da cui è scaturito il fallimento – presenta differenze per quanto attiene all’elemento soggettivo, descrivendo due ipotesi distinte e autonome.

Nella prima (causazione del fallimento con dolo) il dissesto entra nel fuoco del dolo, concretizzando una fattispecie di evento (costituito dal fallimento) a dolo diretto. Nella seconda (causazione del fallimento per effetto di operazioni dolose) il dissesto è l’effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta volontaria, ma non diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell’operazione potrebbe accettare la probabilità che il dissesto si verifichi, collocandosi, così, in un contesto di dolo eventuale (cfr. Cass. n. 3942/2008).
E, quindi, da questo secondo punto di vista, l’elemento soggettivo richiesto non è la volontà diretta a provocare lo stato di insolvenza, essendo, invece, sufficiente la coscienza e la volontà dell’operazione che – concretandosi in abuso o infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico-finanziaria della società – dia luogo allo stato di decozione (Cass. n. 2905/1999). Si tratta di dolo di condotta cui si ricollega un risultato che può anche non essere voluto direttamente, ma la cui rappresentazione non ha fatto desistere l’agente dal porre in atto l’operazione dolosa (rilevando anche come dolo eventuale).

Si ricorda, infine, come sia stato anche affermato che il fallimento determinato da operazioni dolose costituisca un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, ritenendosi, conseguentemente, che l’onere probatorio dell’accusa si esaurisca nella dimostrazione della consapevolezza e volontà dell’amministratore della complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i propri doveri a fronte degli interessi della società, nonché dell’astratta prevedibilità dell’evento di dissesto quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo invece necessarie la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare (Cass. nn. 38728/2014 e 17690/2010).