Secondo l’INAIL rappresentano circa un quinto delle denunce di infortunio pervenute dall’inizio dell’anno

Di Fabrizio VAZIO

È stato pubblicato il nuovo report riguardante i casi di infortunio sul lavoro da COVID-19 denunciati all’INAIL.
L’incremento è – per fortuna – contenuto rispetto al precedente report riferito al 15 giugno scorso: i casi sono infatti 49.986, ovvero 965 in più rispetto all’ultimo monitoraggio.
Il fenomeno “infortuni da COVID” è adeguatamente rappresentato da un dato evidenziato dall’Istituto: i casi in esame rappresentano circa un quinto delle denunce di infortunio pervenute dall’inizio dell’anno.

Risultano confermate alcune tendenze fondamentali, in primis quella secondo cui fra i contagiati l’assoluta prevalenza è per le donne (71,6% dei contagi). Nei casi mortali la tendenza è esattamente inversa, perché l’82,6% è riferito a uomini.
Assai interessante è il dato relativo all’abbassamento dell’età media dei contagiati che ormai ha raggiunto i 47 anni, mentre altrettanto rilievo ha il dato relativo ai casi mortali: qui l’età media è più elevata, arrivando a 59 anni.

Nonostante sia assodato come la maggior parte dei contagi da COVID di origine professionale siano in ambito sanitario, solo il 36,6% dei casi mortali riguarda lavoratori della sanità, a riprova del fatto che il virus ha colpito lavoratori di ogni settore.
Non si può dimenticare, tuttavia, che in ambito sanitario operano diversi soggetti a rischio per i quali la tutela INAIL non è operativa: si pensi ai medici di famiglia o ai medici liberi professionisti.

È il caso di ricordare che la circ. n. 13/2020 dell’INAIL ha fissato una presunzione semplice di origine per i lavoratori dell’ambito sanitario che contraggano il coronavirus; eguale presunzione vale, secondo la circolare, anche per altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza.
L’Istituto indica “in via esemplificativa, ma non esaustiva: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc.”

Per gli altri lavoratori, la presunzione non vale e pertanto l’Istituto assicuratore valuta caso per caso la possibilità che il COVID-19 sia effettivamente di origine professionale avvalendosi, ove lo ritenga necessario, anche delle rilevazioni compiute dal Servizio ispettivo dell’Istituto, con particolare riferimento alle esatte mansioni svolte dal soggetto.

È da ricordare, peraltro, che l’indennizzabilità del COVID-19 come infortunio sul lavoro deriva innanzitutto dalla nozione stessa di infortunio come delineata all’interno del DPR 1124/65, ma anche dalla norma dell’art. 42 del DL 18/2020.
Essa prevede che nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato.
La norma affida quindi all’INAIL il compito di valutare l’indennizzabilità del caso e i prossimi mesi saranno importanti per comprendere quanti dei casi denunciati saranno effettivamente indennizzati come infortuni sul lavoro.

Un altro tema su cui ci si soffermerà nei prossimi mesi è quello relativo a quali casi di infortunio da COVID-19 saranno ascritti a responsabilità dei datori di lavoro: a tale proposito, va ricordato che l’ambito della responsabilità penale è a oggi delimitato dall’art. 29-bis del DL 23/2020.
La norma restringe l’ambito di applicazione dell’art. 2087 c.c. richiedendo ai datori di lavoro unicamente l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’art. 1 comma 14 del DL 33/2020, attraverso l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste.

La norma tuttavia non costituisce uno scudo penale, ma limita unicamente il canone valutativo della responsabilità del datore di lavoro all’applicazione e al mantenimento dei protocolli ivi indicati.