La modifica del DL semplificazioni mira a delimitare maggiormente la condotta penalmente rilevante e a escludere margini di discrezionalità

Di Maria Francesca ARTUSI

Il delitto di abuso d’ufficio è uno dei reati contro la Pubblica Amministrazione previsti dal nostro codice penale ed è una norma tendenzialmente “sussidiaria”, cioè destinata a essere applicata laddove non siano riscontrabili altre più gravi condotte che possono ledere la “cosa pubblica” in senso lato (si pensi al peculato, alla corruzione, alla concussione).

Tale fattispecie è disciplinata dall’art. 323 c.p. che oggi – dopo varie interpolazioni – prevede che venga punito con la reclusione da uno a quattro anni il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto. Salvo – come si è detto – che il fatto non costituisca un più grave reato.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno abbiano un carattere di rilevante gravità.

La L. 190/2012 (la legge “anticorruzione”) aveva elevato le pene alla misura attuale.
Il DL semplificazioni (DL 76/2020, da convertire entro il 14 settembre prossimo) ha invece delimitato l’ambito della violazione punibile facendo riferimento a “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, mentre il testo precedente citava in modo più generale “norme di legge o di regolamento”.

Parrebbe questo un intervento che si muove nella prospettiva di una minore discrezionalità interpretativa della disposizione.
Come precisato dal dossier del Senato che ha accompagnato il DL semplificazioni, con le modifiche apportate dal decreto legge l’ambito oggettivo di applicazione della fattispecie viene circoscritto, in quanto non sono più sanzionati sul piano penale comportamenti in trasgressione di misure regolamentari, ma solo di “specifiche regole di condotta” previste da norma di rango primario (legge o atto avente forza di legge); ulteriore condizione per la configurazione del delitto è che le regole di condotta violate non contemplino margini di discrezionalità in sede applicativa.

Tuttavia, sono state sollevate numerose perplessità su un possibile rischio di inapplicabilità pratica della disposizione così formulata e l’approvazione del decreto “salvo intese” potrebbe dare spazio a ulteriori discussioni sul punto.
È noto infatti che nella definizione della legittimità oggettiva della condotta, ossia della relazione intercorrente tra illiceità penale e discrezionalità amministrativa, la giurisprudenza sia, in modo sempre più frequente, passata dal controllo di legalità oggettivo, fondato cioè sulla formale difformità dell’atto dai presupposti di ordinamento, a un accertamento di carattere “soggettivo”, basato sui motivi che avrebbero guidato l’agente pubblico nella propria attività funzionale. L’espressione “violazione di norme di legge o di regolamento” comprendeva allora anche quelle condotte, formalmente legittime, ma dirette alla realizzazione di un interesse confliggente con quello per il quale il potere è conferito (Cass. SS.UU. n. 155/2011).

Va, inoltre, tenuto in considerazione che il reato può riguardare anche soggetti inseriti in una struttura organizzativa e lavorativa di una società di diritto privato che vengono talvolta considerati incaricati di pubblico servizio (in qualche occasione anche pubblici ufficiali ai sensi dell’art. 357 c.p.), quando l’attività della società medesima sia disciplinata da una normativa pubblicistica e persegua finalità pubbliche, pur se con gli strumenti privatistici.

La giurisprudenza ha individuato come tali, ad esempio: l’amministratore di una società preposta alla gestione del patrimonio di un ente previdenziale (Cass. n. 38691/2009); il concessionario di opere pubbliche e i suoi dipendenti (Cass. n. 11902/2005); il direttore generale di una fondazione avente scopi culturali (Cass. n. 4126/2016); il dirigente di una società a capitale pubblico operante nella raccolta e smaltimento di rifiuti solidi urbani (Cass. n. 17372/2015); il presidente di una società di servizi di trasporto pubblico (Cass. n. 14040/1015), nonché il controllore e i conducenti di tali società (Cass. n. 7593/2015) e così via.

Vale a dire che l’abuso d’ufficio può riguardare anche il diritto penale dell’impresa e lo testimonia ancor di più il fatto che il prossimo 30 luglio entrerà in vigore il DLgs. 75/2020, attuativo della Direttiva Ue 1371/2017 (direttiva PIF), con cui, tra l’altro, l’abuso d’ufficio è stato inserito nel catalogo dei reati presupposto per la responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del DLgs. 231/2001 (quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Ue).