Per la Cassazione, se il credito esiste, la compensazione estingue il debito all’origine
È ormai consolidato il principio secondo cui il contribuente può sia compensare sia riportare a nuovo il credito d’imposta derivante da una dichiarazione omessa, essendo irrilevante, ai fini dell’esistenza del credito, detta omissione dichiarativa, così come l’omessa indicazione nella dichiarazione dell’anno successivo (per dimenticanza o per omissione dichiarativa) del credito derivante da una dichiarazione regolarmente presentata.
Ciò, però, a due condizioni.
In primo luogo, devono essere osservati gli eventuali termini di legge per l’utilizzo del credito; così, se si tratta di credito IVA, occorre il rispetto del termine di cui all’art. 19 del DPR 633/72 per il diritto di detrazione.
Poi, l’utilizzabilità del credito deve pur sempre essere eccepita rispettando le preclusioni processuali del caso. Nel processo tributario, la questione è semplice, posto che essa, traducendosi in un motivo di illegittimità dell’atto impugnato, va a pena di decadenza sollevata nel ricorso introduttivo.
In secondo luogo, il contribuente deve essere in grado di dimostrare l’esistenza contabile del credito (ad esempio producendo le fatture, i registri IVA e le liquidazioni periodiche).
Ieri, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25288, dopo aver ribadito, in sostanza, i menzionati principi, compie un passo in avanti della massima importanza, affermando che se il credito può essere utilizzato, non sono dovute le sanzioni da omesso versamento ex art. 13 del DLgs. 471/97 né gli interessi.
Naturalmente, ma di ciò la sentenza non parla, rimangono ferme le sanzioni derivanti dall’omissione dichiarativa, irrogabili, nella maggioranza delle ipotesi, in misura fissa, difettando imposte dovute.
L’Agenzia delle Entrate, a ben vedere, non ha mai recepito l’indicato orientamento della Cassazione, o meglio, non lo ha mai recepito per intero. Nelle circolari diramate sul tema (nn. 21 del 2013 e 34 del 2012), in breve, l’Erario ha continuato a sostenere la legittimità circa il disconoscimento del credito, ma, nel contempo, ha invitato gli uffici a chiudere la vertenza pretendendo comunque interessi e sanzioni ridotte, vuoi in sede di definizione dell’avviso bonario, vuoi in sede di mediazione o conciliazione giudiziale.
Soluzione all’evidenza non appagante per i contribuenti che ritengono non dovute le sanzioni, men che meno gli interessi.
Comunque, se non si trova l’accordo con l’Ufficio, esso, in spregio dei principi di economia e di efficienza dell’azione amministrativa, pretende che il contribuente versi quanto intimato in cartella per poi, immediatamente dopo, presentare istanza di rimborso (istanza che, incidentalmente, potrebbe essere negata nella misura in cui fossero ormai decorsi i termini di legge).
I giudici (accogliendo, in punto sanzioni e interessi, il ricorso introduttivo del contribuente) sanciscono che “detto credito assume valore dal momento in cui è sorto e siffatto momento va individuato non nella presentazione della dichiarazione, ma in quello di verificazione dei suoi presupposti”.
Più precisamente, “gli interessi sul debito tributario, in ipotesi di compensazione con un credito del contribuente, sono dovuti solo fino al momento della nascita di quest’ultimo credito”.
Infine, si specifica: “analoghe considerazioni vanno svolte quanto alle sanzioni, dovendosi tenere conto che, nel presente giudizio, queste sono state inflitte ex art. 13 del DLgs. n. 471 del 1997, disposizione che concerne gli omessi versamenti o le ipotesi nelle quali siano offerti in compensazione crediti inesistenti”.
Insomma, se il credito esiste, non hanno ragione di esistere sanzioni e interessi.
Sugli interessi il ragionamento appare ineccepibile.
In merito alle sanzioni, appare del pari ineccepibile, essendo la causa inerente al sistema ante DLgs. 158/2015, in cui, difettando una norma espressa, non senza una certa forzatura, l’indebita compensazione si equiparava a un omesso versamento.
Ora, invece, l’art. 13 del DLgs. 471/97, ai commi quarto e quinto, punisce nella misura del 30% la compensazione di crediti esistenti effettuata “in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti”. Se si tratta di compensazione esterna, l’art. 17 del DLgs. 241/97 presuppone l’indicazione del credito in dichiarazione, quindi è legittimo sollevare dubbi sull’impossibilità di irrogare le sanzioni (di certo, a nostro avviso è palesemente illegittimo il recupero del credito, se il contribuente ne dimostra l’esistenza).
Se si tratta di compensazione interna, dovrebbero invece valere le osservazioni della Cassazione.
A ogni modo, se si opta per la tesi che ritiene a tutti gli effetti legittima e non passibile di sanzione la condotta del contribuente, verrebbe meno anche la sanzionabilità penale della condotta di cui all’art. 10-quater primo comma del DLgs. 74/2000.