Inespropriabili le quote di società di persone non liberamente trasferibili

La necessità del consenso unanime degli altri soci impedisce l’inserimento coattivo di nuovi soggetti

Di Emanuele LO PRESTI VENTURA

La società di persone offre ai propri soci un aspetto protettivo spesso trascurato, non espressamente enunciato dalla legge ma ripetutamente sancito in sede giudiziaria: ci si riferisce al principio per il quale le quote di partecipazione al relativo capitale non possono essere assoggettate a pignoramento, atto di avvio della procedura di espropriazione forzata, almeno fino a quando non si verifichi il suo scioglimento.

La giurisprudenza che sposa tale tesi fonda le sue conclusioni su uno degli aspetti che maggiormente caratterizzerebbe la disciplina civilistica delle società di persone: ci si riferisce, in particolare, all’elemento fiduciario alla base del rapporto, così come codificato dall’art. 2252 c.c. (il c.d. “intuitus personae”), a norma del quale, se non convenuto diversamente, il contratto sociale può essere modificato solo all’unanimità.

Nel dettaglio, il pignoramento, in virtù della sua capacità di tradursi in una cessione coattiva della quota, con conseguente modifica della compagine proprietaria, e quindi del contratto sociale, sulla base della mera iniziativa unilaterale di un terzo, risulterebbe incompatibile con un contesto ove ogni socio ha, nella misura in cui non derogato, un diritto di veto sul tema.

Un esempio delle tutele vantate dal socio di società persone, per come appena descritte, si ricava dalla lettura della sentenza della Corte di Appello di Milano 23 marzo 1999, con la quale i giudici, in riforma della pronuncia di primo grado, sulla scorta delle argomentazioni sopra esposte, hanno dichiarato nulli i sequestri conservativi ex art. 671 c.p.c. eseguiti sulle quote di una società in accomandita semplice, quali atti prodromici alla relativa espropriazione, senza peraltro operare alcun distinguo tra partecipazione del socio accomandatario e partecipazione del socio accomandante. Di recente, sulla stessa falsariga, si sono espressi, tra gli altri, il Tribunale di Rimini con sentenza del 12 maggio 2016, avuto riguardo al pignoramento di tutte le quote di una snc, ed ancora il Tribunale di Rovigo con ordinanza del 21 ottobre 2016, circa il possibile pignoramento di quote di una società semplice.

Fermo quanto esposto, è, tuttavia, vero che la disciplina delle società di persone lascia ampi spazi all’autonomia privata circa i rapporti interni, consentendo, tra l’altro, una libera cessione delle quote di partecipazione, ovvero cessione subordinata al solo consenso di parte cedente e di parte cessionaria: in tali casi, assai frequenti per la rigidità che un diverso assetto comporterebbe nella circolazione delle partecipazioni, avendo i soci per così dire abdicato al diritto di veto innanzi citato, nulla osterebbe alla possibilità che queste ultime arrivino ad essere espropriate a beneficio dei creditori particolari del socio. In tale senso, si è espressa la Cassazione nella sentenza n. 15605/2002, in riforma della sopra citata sentenza della Corte di Appello di Milano, e la giurisprudenza di merito ad essa allineata (ad es. Tribunale di Monza 18 gennaio 2019).

In questa prospettiva, nulla aggiungerebbe a quanto precede il tipico inserimento in siffatti scenari di una clausola di prelazione nel contratto societario, quale contraltare della libera circolazione suindicata, destinata ad operare anche nei trasferimenti attuati in sede esecutiva: il degrado della volontà dei soci, con la conseguente attenuazione della rilevanza dell’elemento personalistico così afferma la Cassazione nel precedente appena citato risulterebbe comunque di portata tale da non ostacolare la sequestrabilità delle quote in ottica conservativa e la relativa espropriabilità.

Si segnala come il creditore particolare del socio, scritto una volta di più della sua incapacità di entrare d’imperio nella compagine di una società il cui statuto non riporti la libera circolazione delle quote, abbia a disposizione un’arma diversa per tentare di soddisfare il proprio diritto, che, tuttavia, il debitore può provare a disattivare. Il comma 1 dell’art. 2270 c.c., infatti, che si riferisce alla società semplice ma che va ritenuto applicabile anche alle società di persone commerciali, dispone che, finché dura la società, il predetto creditore può far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al debitore e compiere atti conservativi sulla quota spettante a quest’ultimo nella liquidazione: con particolare riguardo al primo passaggio della norma, però, si osserva come, ex art. 2262 c.c., ciascun socio abbia diritto di percepire la sua parte di utili con la mera approvazione del rendiconto salvo, aspetto di precipua importanza nella definizione di una strategia di massima tutela, patto contrario e quindi diversa decisione dei soci.

In logica comparativa, invece, si rimarca il maggior carattere protettivo delle società in nome collettivo e di quelle in accomandita semplice, rispetto alle società semplici. Per queste ultime, infatti, il comma 2 dell’art. 2270 c.c. afferma che, se gli altri beni del debitore sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti, il creditore particolare del socio può chiedere in ogni tempo la liquidazione della quota del proprio debitore, con conseguente sua uscita dalla società e correlato depauperamento del patrimonio societario. Per le società di persone commerciali, invece, tale possibilità è espressamente negata dall’art. 2305 c.c.; pertanto, il creditore particolare potrà al più opporsi ad una eventuale proroga della società, ai sensi dell’art. 2307 comma 1 c.c.

2019-09-13T07:42:36+00:00Settembre 13th, 2019|News|
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