Tale attività, ulteriore, successiva e distinta da quella di mera distrazione realizza il «quid pluris» che è richiesto e sanzionato dalla norma

Di Maria Francesca ARTUSI

Lo scopo che ha voluto perseguire il legislatore con l’inserimento della fattispecie di autoriciclaggio, prevista dall’art. 648-ter.1 c.p., è quello di “congelare” ogni utilità economica proveniente da delitto, cioè di impedire che tali beni siano in qualsiasi modo reimmessi nel circuito economico e possano così produrre e determinare ulteriori ed illeciti profitti. A tal fine la norma, come sollecitato anche in sede internazionale, superando la tradizionale clausola di esclusione prevista per l’autore del reato presupposto (nell’art. 648-bis c.p. dedicato al riciclaggio “classico”), ha introdotto questa specifica e peculiare ipotesi di reato.

La formulazione di questa disposizione, prevedendo le condotte di “impiego”, “sostituzione” e “trasferimento” in attività economiche e finanziarie è coerente con la citata impostazione che, d’altro canto, risulta anche confermata dalla previsione secondo cui la punibilità è esclusa per le sole condotte finalizzate all’esclusivo godimento personale, quelle attraverso le quali, quindi, neanche l’autore del reato presupposto esercita attività economica ovvero finanziaria (art. 648-ter.1 comma 4 c.p.).

Fatta questa premessa, la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 37503 depositata ieri, ritiene che l’analisi delle condotte, di volta in volta, poste in essere dall’autore del reato non possa prescindere da una verifica, che viene definita “dinamica”, della specifica natura del bene ovvero della utilità, oltre che delle caratteristiche e delle modalità concrete dell’operazione realizzata. Solo in tal modo, peraltro, in certe peculiari situazioni può in effetti essere individuato l’eventuale “quid pluris” che distingue la condotta costituiva del reato presupposto da quella successiva e autonoma sanzionata ai sensi del citato art. 648-ter.1.

Nel caso di specie, era stato disposto il sequestro preventivo per equivalente in relazione al reato di autoriciclaggio, conseguente a fatti di bancarotta per distrazione attuate attraverso una serie di condotte sostanzialmente consistite nella stipula dapprima di un contratto di affitto di azienda e, poi, con un atto di trasferimento, entrambi fittizi. Secondo tale prospettazione accusatoria, il Pubblico Ministero aveva richiesto la misura cautelare sia nei confronti degli amministratori di fatto e di diritto, sia nei confronti di altri concorrenti (consulenti e amministratori di società estere “conniventi”), sia infine nei confronti dell’ente ai sensi del DLgs. 231/2001.

Nel confermare il sequestro, i giudici di legittimità argomentano che qualora il reato originario riguardi il trasferimento di beni “statici”, come anche il denaro, la condotta attraverso la quale la somma è stata conseguita non è evidentemente idonea a configurare anche il reato di autoriciclaggio (cfr. Cass. n. 8851/2019 e Cass. n. 33074/2016); essendo necessario un qualche ulteriore e successivo trasferimento, impiego e reimmissione nel circuito economico, evidentemente non finalizzato ad un godimento esclusivamente personale (tra le più recenti, si veda Cass. n. 5719/2019).

Sempre con riferimento ad utilità “statiche”, d’altro canto, la consumazione del delitto di riciclaggio può coincidere con il momento in cui i beni acquistati con capitali di provenienza illecita sono rivenduti dal reo poiché in questo caso l’acquisizione del denaro “ripulito” così ottenuto non può qualificarsi come un mero “post-factum” non punibile.

La situazione muta radicalmente qualora il bene conseguito con il reato presupposto sia per sua natura, in virtù delle sue intrinseche caratteristiche “dinamiche”, idoneo a determinare l’impiego dell’utilità illecita conseguita in attività economiche o finanziarie. Sotto tale profilo, quindi, la distrazione di una azienda, costituita da un complesso di beni aziendali finalizzati ad una attività imprenditoriale, impone di procedere ad una verifica che non può prescindere dalla effettività o meno della gestione della stessa.

Ciò significa che la mera distrazione dell’azienda, non seguita da alcuna ulteriore e diversa attività può configurare il reato presupposto; mentre la successiva gestione della stessa e/o l’esercizio di una attività imprenditoriale attraverso l’azienda oggetto della distrazione possono configurare il reato di autoriciclaggio quale impiego in attività economiche ovvero finanziarie dell’utilità di provenienza illecita. Tale attività, ulteriore, successiva e distinta da quella di mera distrazione, infatti, realizza compiutamente il “quid pluris” che – come detto – è richiesto e sanzionato dalla norma in questione.

Tanto considerato, la Cassazione condivide il ragionamento del giudice di merito che, nel caso in esame, ha distinto le due condotte e proprio per tale ragione ha proceduto all’individuazione dello specifico profitto del reato di autoriciclaggio nell’attività di gestione, senza sovrapporlo al valore dell’azienda.