Manca anche una definizione univoca di «residenza della famiglia»

Di Cecilia PASQUALE

La nozione di residenza viene in rilevo in molteplici norme (tra le altre, l’individuazione del giudice competente ex art. 18 c.p.c. e il luogo di notificazione degli atti ex art. 139 c.p.c.), ma non è univoca: nel nostro ordinamento, infatti, esistono diverse definizioni non sempre coerenti tra loro.

La definizione civilistica di residenza è contenuta all’art. 43 comma 2 c.c., che si riferisce al “luogo in cui la persona ha la dimora abituale”. La nozione del codice civile fa riferimento al luogo con cui il soggetto ha una relazione di fatto, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle relazioni sociali (così Cass. n. 13241/2018).
La residenza si contrappone al domicilio (art. 43 comma 1 c.c.) che è, invece, una nozione di diritto e corrisponde al luogo in cui la persona “ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi”.

La residenza anagrafica è il dato risultante dalla registrazione effettuata presso l’anagrafe della popolazione residente tenuta presso ogni Comune, ai sensi dell’art. 1 della L. 1228/54. Essa consiste in un atto che individua la residenza (nel senso civilistico di dimora abituale) in un determinato momento (quello della registrazione). In quanto tale, essa dovrebbe coincidere con lo stato di fatto ma è, in realtà, legata al momento in cui la registrazione è effettuata.

Di conseguenza, le nozioni di residenza anagrafica e residenza civilistica non coincidono necessariamente: l’una identifica il luogo in cui un soggetto dimora abitualmente, l’altra indica il luogo comunicato al Comune, che potrebbe non corrispondere alla dimora abituale della persona.

L’indicazione anagrafica, anche se non individua inequivocabilmente la residenza civilistica, ha rilevanza sul piano probatorio e forma una presunzione circa il luogo di effettiva abituale dimora. Il legislatore, infatti, ha predisposto un meccanismo per garantire che il dato reale coincida con quello formale: ai sensi dell’art. 44 c.c., il trasferimento della residenza “non può essere opposto ai terzi di buona fede, se non è stato denunciato nei modi prescritti dalla legge”, ossia mediante dichiarazione all’anagrafe del Comune che si abbandona e a quella del Comune dove si fissa la nuova residenza (art. 2 della L. 1228/54).

L’iscrizione, però, costituisce solo una presunzione del luogo di residenza civilistica, la quale si trasferisce laddove si sposta la dimora abituale della persona, a prescindere dalla dichiarazione all’anagrafe. Per tale ragione, si ritiene che chi ha mutato la residenza ex art. 43 c.c. senza effettuare la dichiarazione all’anagrafe sia sempre ammesso a provare la conoscenza, da parte dei terzi, della dimora abituale.

In particolare, secondo alcuni la residenza abituale è accertabile con qualunque mezzo di prova (così Cass. n. 9373/2014). Altra giurisprudenza, pur ammettendo il valore meramente presuntivo delle risultanze anagrafiche, riconosce a queste una particolare resistenza e ritiene che possano essere superate solo con elementi gravi, precisi e concordanti (Cass. n. 8554/1996).

In tale quadro interpretativo si inserisce la questione relativa alla nozione di “residenza familiare” o “residenza della famiglia” a cui fanno riferimento gli artt. 45 c.c. e 144 e ss. c.c. La prima è stata introdotta al fine di determinare “per relationem” il domicilio del minore, la seconda individua il luogo, scelto di comune accordo dai coniugi, “secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa”.

I dubbi interpretativi sul punto riguardano in primo luogo la coincidenza o meno delle due nozioni e, in secondo luogo, il rapporto di queste con la definizione di residenza di cui all’art. 43 comma 2 c.c.
La residenza familiare, infatti, a differenza del concetto di cui all’art. 43 c.c. che presuppone l’esistenza di una persona fisica, riguarda la relazione di un gruppo di persone con un luogo.

Ci si chiede, poi, se le nozioni di residenza familiare ex artt. 45 c.c. e 144 c.c. coincidano. Tale questione è collegata alla precedente: se la nozione di residenza familiare dell’art. 45 c.c. corrisponde alla residenza come situazione di fatto consistente nella dimora abituale dei coniugi, essa va distinta da quella individuata all’art. 144 che, invece, è il risultato di un accordo e non del mero fatto di dimorare abitualmente in un luogo.

A riguardo, alcuni ritengono che la residenza ex art. 45 c.c. e quella ex art. 144 c.c. coincidano: entrambe individuerebbero il luogo in cui coniugi hanno fissato la loro dimora abituale, dimora che deve necessariamente convergere in ragione dell’obbligo di coabitazione che deriverebbe dalla previsione dell’art. 143 c.c. I coniugi potrebbero, al più, scegliere un domicilio autonomo.

Secondo altri, la coincidenza delle nozioni non implica che lì si trovi la residenza in senso civilistico di entrambi i coniugi. La residenza familiare, infatti, è un luogo convenzionalmente eletto dalle parti, mentre la residenza del singolo componente, intesa come dimora abituale, è una situazione di fatto non necessariamente coincidente con quella scelta ai fini dell’art. 144 c.c. Accogliendo tale interpretazione, è possibile ammettere che i coniugi mantengano distinti i luoghi di residenza, ad esempio per esigenze di tipo lavorativo.