La normativa è volta alla tutela del segnalante e non fonda un dovere di indagine sui possibili illeciti

Di Maria Francesca ARTUSI

La normativa in materia di “whistleblowing” si limita a scongiurare conseguenze sfavorevoli, relative al rapporto di impiego, per il segnalante che acquisisca, nel contesto lavorativo, notizia di un’attività illecita; mentre non fonda alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni e non autorizza improprie attività investigative, in violazione dei limiti posti dalla legge.
La Cassazione – nella sentenza n. 35792 depositata ieri – ha, così, iniziato a porre dei confini alla inevitabile ambiguità della tutela predisposta dalla L. 179/2017 e, ancor prima, per i dipendenti pubblici dall’art. 54-bis del DLgs. 165/2001.

Nel caso affrontato, un soggetto incaricato di pubblico servizio era stato accusato del reato di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, ai sensi dell’art. 615-ter c.p., che prevede la reclusione fino a cinque anni per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo.
Costui aveva, in effetti, avuto accesso, utilizzando l’account e le password di altro dipendente, al sistema informatico di un istituto scolastico e aveva elaborato un falso documento di fine rapporto a nome di persona che non aveva mai prestato servizio presso quella amministrazione, al fine di sperimentare la vulnerabilità del sistema.
Proprio in virtù di tale finalità che aveva mosso l’intero suo operato, costui adduceva la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere prevista dall’art. 51 c.p., fondata su un obbligo di segnalazione degli illeciti derivante dal vincolo di fedeltà che lega il pubblico dipendente all’amministrazione.

I giudici di legittimità si soffermano, pertanto, sulla disciplina per la segnalazione degli illeciti da parte del dipendente pubblico, prevista dall’art. 54-bis del DLgs. 165/2001, come innovato dall’art. 1 della L. 179/2017. L’istituto, che presenta analogie con altre figure di ambito internazionale (da cui deriva anche il termine “whistleblowing”), si distingue dal reato di omessa denuncia del pubblico ufficiale (art. 361 c.p.) in riferimento ai presupposti e all’ambito di operatività.
La segnalazione in esame risponde, difatti, a una duplice ratio: da un lato, delinea un particolare status giuslavoristico in favore del soggetto che segnala un illecito e, dall’altro, vuole favorire l’emersione, dall’interno delle organizzazioni pubbliche, di fatti illeciti, promuovendo forme più incisive di contrasto alla corruzione.

In riferimento al primo profilo, l’ultima parte del comma 1 dell’art. 54-bis prevede che il dipendente virtuoso non possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misure discriminatorie, dirette o indirette, aventi effetti sulle condizioni di lavoro, per motivi collegati alla segnalazione effettuata, che deve avere ad oggetto una condotta illecita, non necessariamente penalmente rilevante. Quanto ai destinatari della comunicazione, la stessa può essere rivolta all’autorità giudiziaria ordinaria, alla magistratura contabile e al superiore gerarchico del segnalatore.
In riferimento all’oggetto, la formula riferita al contesto di acquisizione della notizia (“di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro”) esprime che il fatto oggetto di segnalazione possa riguardare – ai fini di tutela del dipendente – solo informazioni acquisite nell’ambiente lavorativo.

I commi 2 e 4 del medesimo articolo prevedono, poi, un articolato sistema di protezione dell’anonimato del segnalante, in una prospettiva palesemente incentivante, escludendo la materia dalla normativa in tema di accesso civico (DLgs. 33/2013) e di accesso agli atti (L. 241/1990) e limitando la rivelazione dell’identità ai soli casi indispensabili per la difesa dell’incolpato.

I giudici ricordano, altresì, che con l’orientamento ANAC n. 40 dell’11 giugno 2014 il sistema è stato esteso anche mediante la previsione di informativa in favore del responsabile anticorruzione che viene, in tal modo, a potenziare il ruolo centrale, nell’ambito della singola organizzazione pubblica, in materia di prevenzione e contrasto alla corruzione (orientamento, poi, confluito nelle Linee Guida specificamente dedicate alla materia, tramite Determinazione ANAC n. 6/2015).

Alla luce di tale inquadramento normativo, la Corte di Cassazione ribadisce la mera funzione di tutela di queste previsioni ed esclude l’esistenza di un qualunque dovere di segnalazione da parte del dipendente pubblico che possa avere valore scriminante rispetto a condotte illecite, come quella di introduzione illecita in un sistema informatico, al fine di avvalorare la segnalazione medesima.