Il CNDCEC chiarisce che il reato può configurarsi anche per chi, pur abilitato e iscritto all’albo, si trova nell’impossibilità temporanea di esercitare

Ai sensi dell’art. 348 c.p., chiunque abusivamente eserciti una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da 103 a 516 euro.
Il bene giuridico tutelato da tale disposizione è l’interesse dei cittadini al fatto che colui che esercita determinate professioni sia in possesso delle relative capacità. Il reato è posto, cioè, a salvaguardia delle c.d. “professioni protette”, per l’esercizio delle quali serve un’abilitazione rilasciata dallo Stato e l’iscrizione in un particolare albo professionale.
In particolare, l’art. 2229 c.c. prevede che la legge determini le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi. L’accertamento dei requisiti per tali iscrizioni, la tenuta degli albi e il potere disciplinare sugli iscritti sono demandati alle associazioni professionali, sotto la vigilanza dello Stato, salvo che la legge disponga diversamente.

Rispetto al delitto di esercizio abusivo della professione, la giurisprudenza ha sottolineato come per la corretta individuazione del concetto di “professione” possa farsi riferimento alla definizione che ne ha fornito la Corte di Giustizia nella sentenza 11 ottobre 2001, relativa alla causa C-267/99, per la quale le libere professioni “sono attività che presentano un pronunciato carattere intellettuale, richiedono una qualificazione di livello elevato e sono normalmente soggette ad una normativa professionale precisa e rigorosa. Nell’esercizio di un’attività del genere, l’elemento personale assume rilevanza particolare e presuppone una notevole autonomia nel compimento degli atti professionali” (cfr. Cass. n. 18713/2012).

Con riferimento alla professione dei commercialisti e degli esperti contabili, le Sezioni Unite n. 11545/2012hanno avuto occasione di precisare che la tenuta di contabilità e l’assistenza negli adempimenti tributari non sono attività esclusive; sono però attività che, in quanto normativamente tipiche dei commercialisti, possono essere svolte soltanto da loro (e dagli iscritti ad altri Albi le cui leggi ordinamentali le dovessero contemplare) come attività abituale, organizzata e retribuita.

Tutto ciò premesso, il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili – nel Pronto Ordini n. 24/2018 – ha affrontato un’ipotesi particolare di “abusività”. Nel quesito posto ci si interrogava sulle conseguenze penali di un accertamento del continuato esercizio dell’attività nei confronti di un soggetto iscritto all’Albo per il quale era stato adottato un provvedimento disciplinare di sospensionedall’esercizio professionale.

In via generale, la condotta abusiva si riscontra laddove venga esercitata una determinata professione senza che sia integrata la condicio sine qua non dell’iscrizione all’Albo di riferimento. Tale iscrizione ha, infatti, lo scopo di garantire la speciale abilitazione conseguente al possesso di determinati titoli e al superamento di uno specifico esame.
Tuttavia, oltre a questa modalità di realizzazione della condotta penalmente rilevante, il CNDCEC evidenzia come il reato previsto all’art. 348 c.p. possa configurarsi anche qualora il professionista, pur regolarmente abilitato e iscritto all’albo, si trovi nell’impossibilità temporanea di esercitare la professione.

Tale conclusione trova supporto anche in una giurisprudenza risalente della Cassazione penale in cui veniva affermato che può commettere la fattispecie di esercizio abusivo della professione non soltanto chi non sia in possesso dell’abilitazione dello Stato, ma anche chi non sia iscritto nel relativo Albo ovvero, dopo esservi stato iscritto, sia stato radiato o sospeso dall’esercizio professionale (Cass. n. 20439/2007).
Anche in altra pronuncia più recente, i giudici di legittimità hanno ritenuto che un avvocato avesse “abusato della qualità (sospesa) di difensore” (Cass. n. 18745/2014).

Le ragioni portate dalla giurisprudenza attengono al bene tutelato

Può, dunque, essere soggetto attivo del reato previsto dall’art. 348 c.p. non solo chi sia sfornito del titolo richiesto o dell’abilitazione prescritta o chi non abbia adempiuto alle formalità necessarie come condizione per l’esercizio della professione (come l’iscrizione all’albo), ovvero chi, pur avendone i titoli, travalichi i limiti imposti dalla professione stessa, ma anche chi è stato sospeso, interdetto o cancellato dall’albo di riferimento.

Va detto, in proposito, che parte della dottrina ha criticato l’equiparazione sanzionatoria tra situazioni molto diverse tra loro (assenza dei requisiti o mera sospensione), ma le ragioni portate dalla giurisprudenza attengono al bene tutelato e, dunque, alla possibilità di un effettivo controllo da parte del relativo ordine o collegio professionale.