Secondo un’opinione consolidata, dalla circostanza che i reati tributari siano reati propri – ovvero illeciti che possono essere commessi solo da soggetti titolari di una determinata qualifica giuridica – discende la conclusione che laddove il contribuente infedele (ovvero il soggetto che evade) sia una società o comunque una persona giuridica il responsabile dell’illecito fiscale è il solo rappresentante legale dell’ente, che ha proceduto alla firma ed alla presentazione della dichiarazione fiscale inveritiera. Da ciò deriva l’ulteriore affermazione che laddove la società sia diretta da un consiglio di amministrazione, la responsabilità penale si incentra esclusivamente sull’amministratore delegato o comunque sul singolo amministratore che sia incaricato di provvedere alla presentazione della dichiarazione.
Questa ricostruzione degli illeciti penali tributari tuttavia viene sempre più di frequente messa in dubbio dalla giurisprudenza. In sede di legittimità, infatti, sono rinvenibili decisioni della Cassazione in cui ad esempio si afferma che risponde del delitto di omesso versamento IVA – ma il discorso evidentemente vale anche con riferimento alle ritenute d’acconto – l’amministratore di una società che sia cessato dalla carica prima della scadenza del termine per il pagamento annuale dell’imposta se comunque, nonostante l’intervenuta decadenza, conservi poteri di amministrazione all’interno della società (Cass. n. 26930/2017).
In analogo senso si è pronunciato recentemente il Tribunale di Bergamo, in sede di riesame di un provvedimento di sequestro preventivo emesso, in relazione ai reati di utilizzo di false fatture ed omessa dichiarazione, nei confronti di un componente del consiglio di amministrazione e ciò in quanto l’amministratore di una società – a prescindere dalle attribuzioni e deleghe specificatamente riconosciute ai vari componenti del board societario – “è posto dal nostro ordinamento in una posizione di garanzia nei confronti dei creditori, ivi compreso l’erario, ed indubbiamente fra i doveri minimi che si radicano in capo a lui al momento dell’accettazione della carica rientra – oltre al controllo sull’esistenza, sulla regolare tenuta e sulla pronta reperibilità dei libri sociali – il controllo della correttezza delle dichiarazioni” (Trib. Bergamo 20 febbraio 2018 n. 16).
Il punto di maggiore apertura della giurisprudenza nel senso di una indiscriminata applicazione della normativa di cui al DLgs. 74/2000 tuttavia è stato raggiunto con la decisione della Suprema Corte n. 35527/2016, secondo cui del reato di omessa dichiarazione, pur essendo tale delitto un reato proprio, la cui realizzazione come detto suppone la sussistenza in capo al responsabile di una determinata qualifica da cui deriva l’obbligo di comunicare all’Amministrazione finanziaria i propri redditi, possono rispondere, allorquando la mancata dichiarazione concerna una persona giuridica, a titolo di concorso e quali extranei anche i soci della società (come concorrenti morali e beneficiari finali del reato).
Che di un reato tributario possa rispondere anche un soggetto ulteriore, unitamente al cosiddetto intraneus – ovvero il soggetto in possesso della qualifica normativa alla cui sussistenza il legislatore subordina il venire in essere del dovere di dichiarazione o di versamento dell’imposta – non è mai stato in discussione. Tuttavia, in queste ipotesi la responsabilità dell’extraneus viene da sempre ricollegata ad un significativo apporto che lo stesso fornisce all’intraneus, suggerendogli la condotta da tenere o fornendogli le competenze necessarie per realizzare l’illecito – si pensi, ad esempio, al consulente aziendale che organizzi, a vantaggio di un imprenditore suo cliente una “frode carosello” – oppure perché viene a rivestire una posizione centrale nella società, come nel caso dell’amministratore di fatto.
La nuova giurisprudenza, tuttavia, presenta profili di rilevante novità rispetto ai precedenti approdi della Cassazione, giacché sembra che i giudici di legittimità siano pronti a riconoscere la responsabilità dei soggetti privi della qualifica di amministratore delegato o amministratore unico, e quindi non tenuti personalmente alla presentazione della dichiarazione dei redditi, prescindendo da un qualsiasi accertamento circa la condotta effettivamente da loro tenuta, per fondarsi la relativa pronuncia di condanna su una generica considerazione circa il fatto che i soci o gli amministratori di una persona giuridica sono fra i principali beneficiari dell’evasione di imposta attribuibile alla società e che quindi è ben ipotizzabile una loro responsabilità quali concorrenti morali nella scelta del legale rappresentante di non procedere alla presentazione della dichiarazione dei redditi o di utilizzare false fatture.