Se la contestazione si basa sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia indispensabile per la difesa dell’incolpato

La L. 179/2017 (Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato) ha introdotto anche per le società di diritto privato l’obbligo – o forse sarebbe meglio dire l’onere – di prevedere nell’ambito della propria struttura organizzativa misure intese a favorire l’emersione, grazie alla collaborazione dei dipendenti, di fatti di rilievo penale che abbiano a verificarsi nell’impresa.

In questo senso può dirsi che tale legge istituzionalizza anche nel settore privato – come già previsto per le P.A. in virtù dell’art. 54-bis del DLgs. 165/2001 – la necessaria esistenza di canali di comunicazione fra il soggetto che opera nella società e che segnala l’illecito (il c.d. whistleblower) e gli organi apicali dell’azienda stessa che devono provvedere alla ricezione della segnalazione e agire di conseguenza.

A tale scopo il legislatore ha individuato nell’esistenza di canali di comunicazione e nella predisposizione di idonee misure atte a favorire le segnalazioni e a proteggere l’identità del segnalante un criterio di idoneità dei modelli organizzativi di cui al DLgs. 231/2001, che devono appunto prevedere canali di comunicazione, garantire la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione – con utilizzo di un sistema informatico, prevedere nel sistema disciplinare sanzioni nei confronti di chi viola le misure di tutela del segnalante, nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelano infondate.

Molteplici sono le criticità che la nuova normativa presenta. Da più parti si è segnalata l’incertezza che circonda l’oggetto e il contenuto della segnalazione: il legislatore parla di segnalazione circostanziata e riferita a condotte illecite e a violazioni del modello organizzativo, ma è evidente che se il modello organizzativo insiste troppo sul carattere circostanziato della segnalazione rischia di limitare in via considerevole tale forma di emersione dell’illecito; mentre, se si ammette la possibilità di riferire di fatti generici, si apre la porta a condotte diffamatorie e accusatorie prive di significativi riscontri.

In secondo luogo, non si comprende perché mediante la tecnica del whistleblowingdebbano essere segnalate anche violazioni del modello organizzativo, quando secondo l’impostazione generale del DLgs. 231/2001 tali condotte devono essere segnalate, senza anonimato ma in forma chiara e precisa, (quanto meno) all’organismo di vigilanza; sicché, per tale aspetto, la disciplina in tema di whistleblowing pare in contrasto o comunque si sovrappone a quella “231”.

Infine, non si comprende quale sia la condotta che la società deve assumere una volta ricevuta la segnalazione. Certo si potrebbe ritenere che l’impresa debba comunicare il fatto all’autorità giudiziaria, ma ciò esporrebbe l’impresa a eventuali sanzioni ai sensi dello stesso DLgs. 231/2001; di conseguenza, valendo anche per le persone giuridiche il diritto a non autoincriminarsi, e quindi il diritto al silenzio su fatti di reato che le vedono protagoniste, potrebbe sostenersi che la società, di fronte alla segnalazione, debba prendere atto ed eventualmente ristrutturare il modello organizzativo, ma non è in alcun modo obbligata a farne comunicazioneall’autorità giudiziaria.

Uno dei punti più delicati attiene poi alla tutela del segnalante, cui (prima ancora del diritto a non essere discriminato sul luogo di lavoro in conseguenza della sua segnalazione) va garantito il diritto all’anonimato. Il legislatore, tuttavia, non precisa se tale diritto all’anonimato debba essere inteso nel senso che la società deve “recepire” e prendere in considerazione anche comunicazioni il cui mittente è sconosciuto o se invece la segnalazione debba essere riferita sempre a un soggetto identificato, salvo l’obbligo per la persona giuridica di mantenere segreta l’identità dello stesso.

A tale quesito pare dare una prima risposta la Cassazione con la decisione n. 9047/2018, secondo cui il c.d. canale del whistleblowing rappresenta e deve dare vita a “un sistema che garantisce la riservatezza del segnalante nel senso che il dipendente che utilizza una casella di posta elettronica interna al fine di segnalare eventuali abusi non ha necessità di firmarsi, ma il soggetto effettua la segnalazione attraverso le proprie credenziali ed è quindi individuabile seppure protetto”.

La decisione era relativa alla previgente disciplina con riferimento alla Pubblica Amministrazione, ma si ha ragione di ritenere che, in considerazione delle riflessioni sviluppate in tale sentenza, debba ritenersi che anche nel sistema della L. 179/2017 l’anonimato del denunciante va inteso come riserbo sulle sue generalità, salvo ovviamente il consenso dell’interessato alla loro divulgazione, e opera solo in ambito disciplinare e sempre che la contestazione sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione; giacché, ove detta contestazione si basi, in tutto o in parte, sulla segnalazione stessa, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato.