Il giudice di merito deve però indicare i concreti elementi di fatto che rendono più attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta

Di Maria Francesca ARTUSI

Ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice non è vincolato, nella determinazione dell’imposta evasa, all’imposta risultante a seguito dell’accertamento con adesione o del concordato fiscale tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente.

Il procedimento penale in materia di reati tributari si configura, infatti, del tutto autonomo rispetto al processo e all’accertamento propri del diritto tributario. Tale affermazione si fonda su quanto previsto dall’art. 20 del DLgs. 74/2000 e viene ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 7020 depositata ieri.

Il citato art. 20 ha, in realtà, natura processuale e stabilisce che il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione. Da questo si fa, comunque, discendere il cosiddetto principio del “doppio binario” penale tributario, unitamente a quanto previsto dal successivo art. 21 e in relazione anche al principio di specialità sancito dall’art. 19 del medesimo decreto.

Alla luce di tutto ciò, laddove l’illecito tributario assuma rilevanza penale e il compito di accertare e determinare l’imposta evasa sia affidato al giudice penale, le verifiche di costui possono sovrapporsi o anche entrare in contraddizione con quelle eventualmente effettuate dinanzi al giudice tributario.

Nel caso affrontato dalla Cassazione era stato disposto un sequestro preventivo a fronte della contestazione del reato di dichiarazione infedele ai sensi dell’art. 4 del DLgs. 74/2000. Vero è che la correttezza e la veridicità dei dati esposti in dichiarazione sono soggetti innanzitutto ad un controllo di natura amministrativa e fiscale; tale illecito assume, tuttavia, penale rilevanza quando, congiuntamente, l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a  150.000 euro e l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a 3.000.000 euro (cfr. art. 4 del DLgs. 74/2000 come modificato dal DLgs. 158/2015).

La determinazione dell’imposta evasa incide, dunque, sulla punibilità e, nel caso di specie, l’accertamento compiuto dalla Guardia di Finanza aveva evidenziato una evasione superiore alla soglia penale, mentre una diversa quantificazione era stata operata a seguito del contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e del conseguente accertamento con adesione.
Secondo i giudici di legittimità, il fatto che l’imputazione del reato avesse preso le mosse da un accertamento della Guardia di Finanza non comporta l’automatico venir meno della fattispecie delittuosa – quanto meno nella fase cautelare del sequestro – per effetto del ridimensionamento della pretesa tributaria avvenuto tramite l’accertamento.

Devono esistere gravi e concordanti elementi dell’illiceità del profitto

Tale impostazione è già stata percorsa in giurisprudenza, ove è stato evidenziato che la natura negozialedell’accordo concluso nell’accertamento con adesione non può vincolare il giudice penale, laddove sussistano elementi gravi e concordanti in ordine all’illiceità del profitto. Inoltre, la valutazione dell’attendibilità di un accordo transattivo e la conseguente quantificazione del profitto non possono richiedere, in fase cautelare (cioè, in sede di sequestro preventivo), un’indagine altrettanto penetrante rispetto a quella del successivo giudizio di merito (cfr. Cass. n. 19997/2017).

Nel procedimento oggetto della pronuncia in commento, un punto problematico di valutazione riguardava la possibile “preminenza” dell’accertamento compiuto dall’Agenzia delle Entrate rispetto a quello dei finanzieri. In proposito, la Cassazione afferma che, ai fini dell’applicazione del sequestro, restano dirimenti le argomentazioni addotte dal giudice di merito e la motivazione congrua delle conclusioni raggiunte. Costui non è, dunque, vincolato a quanto stabilito nell’accertamento, purché indichi concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta. In altre parole, per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento occorrono concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta (cfr. Cass. n. 40755/2015).