L’ulteriore documentazione fornita dal contribuente deve permettere di ricostruire natura, qualità e quantità di beni o servizi oggetto dell’operazione

Di Alessandro BORGOGLIO

È indetraibile l’IVA afferente a una fattura di acquisto qualora la sua descrizione sia generica e la documentazione di supporto dell’operazione fatturata sia altrettanto generica o comunque insufficiente a dimostrare la natura, qualità e quantità dei beni o servizi acquistati.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 23384/2017.

Occorre ricordare, innanzitutto, che l’art. 21, comma 2, lett. g) del DPR 633/72, nel prescrivere che la fattura deve indicare la “natura, qualità e quantità dei beni e servizi oggetto dell’operazione”, riproduce su base nazionale il principio contenuto nell’art. 226punto 6 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio Ue.
Al riguardo, con la sentenza in commento, i Supremi giudici, riprendendo la giurisprudenza comunitaria in materia, hanno ribadito che la normativa unionale prescrive l’obbligatorietà dell’indicazione dell’entità e della natura dei servizi forniti, nonché della specificazione della data in cui è effettuata o ultimata la prestazione di servizi; ciò al fine di consentire all’Amministrazione finanziaria di controllare l’assolvimento dell’imposta dovuta e, se del caso, la sussistenza del diritto alla detrazione dell’IVA.

L’Amministrazione finanziaria, però, non si può limitare all’esame della sola fattura, ma deve tener conto anche delle informazioni complementari fornite dal soggetto passivo, essendo assimilabili a una fattura tutti i documenti o messaggi che modificano e fanno riferimento in modo specifico e inequivocabile alla fattura iniziale.
Incombe, comunque, su chi chiede la detrazione dell’IVA l’onere di dimostrare di soddisfare le condizioni per fruirne e, per conseguenza, di fornire elementi e prove, anche integrativi e succedanei rispetto alle fatture, che l’Amministrazione finanziaria ritenga necessari per valutare se si debba riconoscere, o no, la detrazione richiesta.

In questa prospettiva, la posizione di legittimità rispecchia quanto affermato anche in dottrina, laddove si è sostenuto che l’Amministrazione finanziaria non può negare il diritto alla detrazione dell’IVA con la sola motivazione che una fattura non rispetti formalmente i requisiti previsti dall’art. 21, comma 2, lett. g) del DPR 633/72, qualora essa disponga dei documenti accessori e delle informazioni di qualsiasi tipo, fornite dal contribuente, per accertare che i requisiti sostanziali per l’esercizio di tale diritto sono stati nel caso specifico soddisfatti (cfr. Norma di comportamento AIDC n. 199).

Nel caso di specie, a fronte di una fattura con descrizione generica, era stata valutata anche l’ulteriore documentazione fornita dal contribuente, consistente in delibere del CdA e verbali del Comitato esecutivo nei quali si faceva riferimento alle operazioni fatturate, ma – come rilevato anche dalla Suprema Corte – si era trattato di documenti che ne richiamavano altri per relationem, senza mai riportarne il contenuto, ma solo i valori monetari finali: insomma, la documentazione ulteriormente esibita non consentiva di supplire alla genericità della descrizione della fattura per ricostruire l’entità, la natura e l’epoca dei servizi forniti, derivandone, così, la legittimità del disconoscimento della relativa detrazione IVA da parte del Fisco.

La sentenza è importante perché è una delle poche che affronti direttamente ai fini dell’IVA la questione della genericità delle fatture e delle relative conseguenze per la detrazione.
Si ricorda, infatti, che in passato la Suprema Corte si è più volte occupata della stessa questione, ma ai fini della deducibilità dei costi: può, cioè, una fattura con generica descrizione essere documento sufficiente alla deducibilità dei relativi costi?

Stessa questione per la deducibilità dei costi

In dottrina si è affermato che la verifica della deducibilità dei costi per beni e servizi acquisiti comporta la necessità di identificare la natura, la qualità e la quantità dei beni e dei servizi oggetto dell’operazione, ma tale identificazione non deve necessariamentederivare dalla lettura della fattura (cfr. Norma di comportamento AIDC n. 199).
Per la Cassazione, se redatta in conformità alle disposizione di cui all’art. 21 del DPR n. 633/72 (quindi, con l’indicazione di natura, qualità e quantità dei beni e servizi), la fattura è documento idoneo a legittimare la deduzione di un costo, lasciando presumere la verità di quanto in essa indicato (ex pluris, Cass. nn. 9108/2012 e 24426/2013).
Se la fattura, però, riguarda prestazioni generiche non documentate, spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’esistenza e l’inerenza di tali costi alla propria attività e, in assenza di detta prova, l’accertamento dell’Ufficio con cui vengono recuperati i costi risulta legittimo (Cass. n. 19489/2010).

In effetti, la Suprema Corte ha sempre confermato l’indeducibilità dei costi afferenti a fatture generiche, in particolare relative a prestazioni di consulenza o a contratti eccessivamente “vaghi” (Cass. nn.  22403 e 21184 e 2014).
Anche quest’anno, in verità, i giudici di legittimità hanno ribadito l’indeducibilità dei costi relativi a fatture nella cui descrizione non era indicato alcun periodo di riferimento delle operazioni e per le quali non vi era alcun contratto scritto di supporto (Cass. n. 20303/2017).

In conclusione, ai fini delle imposte dirette, se è vero che una fattura dettagliata e completa in ogni sua parte costituisce certamente un buon supporto probatorio, che potrebbe essere idoneo di per sé a legittimare la deducibilità dei relativi costi, è ancor più vero che la fattura non è il solo documento a tal fine rilevante, potendosi i requisiti sostanziali per la deduzione, di cui all’art. 109 del TUIR, ricavarsi anche da altra documentazione, quale, ad esempio, quella contrattuale, sempreché, ovviamente, sia idonea allo scopo e non anch’essa eccessivamente generica.