In due pronunce la Cassazione contrasta con l’art. 109 comma 5 del TUIR e non tiene conto dell’art. 14 comma 4-bis della L. 537/93

Di Maurizio RIVERDITI

Analizzando le massime della più recente giurisprudenza di legittimità in materia tributaria, si intravvedono le ombre di un fantasma che se dovesse prendere corpo travolgerebbe sia i criteri di computo della base imponibile a fini impositivi, sia i principi che stanno a fondamento della sanzione penale.
In particolare, con due distinte pronunce, la Suprema Corte, animata da un approccio vagamente “moraleggiante”, ha escluso la deducibilità, per carenza del requisito dell’inerenza, ex art. 109 comma 5 del TUIR: dei “costi relativi al risarcimento dei danni da ritardo nella consegna di un immobile oggetto di preliminare di vendita, scaturenti da atto di transazione”, in quanto, diversamente dalle penali contrattuali ex art. 1382 c.c., troverebbero origine nell’inadempimento contrattuale, “per sua natura al di là della sfera aziendale” (Cass. 8 giugno 2021 n. 15932); delle spese per la difesa penale del Presidente e dell’amministratore della società, in quanto estranee tanto alla nozione di costo per operazioni sociali legittime, quanto all’oggetto sociale (Cass. 6 agosto 2019 n. 20945).

Se il principio di diritto (di per sé criticabile) affermato da queste sentenze si consolidasse (in contrasto con un orientamento precedente di segno contrario, cfr. per tutte Cass. 5 novembre 2019 n. 28355), ne deriverebbero effetti certamente contrari all’assetto dell’ordinamento vigente per almeno due ordini di ragioni.

In primo luogo, perché contrasta con l’impostazione adottata dall’art. 109 comma 5 del TUIR che considera generalmente deducibili tutti i costi inerenti alle attività o ai beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito imponibile. Sicché, lungi dall’abbracciare criteri valoriali o incentrati sull’utilità della spesa o sulla sua previsione nell’oggetto sociale, il giudizio di inerenza riguarda, anzitutto, un aspetto fattuale, concernente la riconducibilità del costo a un’attività di per sé suscettibile di generare reddito imponibile: l’attività e i beni che generano il costo (e non il costo di per sé), dunque, devono essere pertinenti con lo scopo dell’impresa (per tutte, Cass. n. 18904/2018).
Con il che pare difficile negare, quantomeno aprioristicamente, che la transazione conclusa per porre rimedio a un danno cagionato nell’ambito dell’attività d’impresa (sia per inadempimento, sia per fatto illecito in senso lato) e che, in quanto tale, ne incarna, in maniera plastica, il rischio tipico, sia di per sé “al di là della sfera aziendale”. Salvo ipotizzare che debba considerarsi tale proprio il rischio di impresa: ma se così fosse, a parte l’illogicità dell’impostazione, portando il ragionamento alle sue estreme conseguenze si dovrebbero considerare parimenti extra-aziendali tutti i costi sostenuti per rimediare i danni cagionati nell’ambito dell’attività, nonché i costi sopportati per assicurare l’impresa dalla relativa manifestazione (polizze infortuni, per responsabilità civile e simili).

In ogni caso, un tal modo di ragionare non tiene conto di quanto prevede l’art. 14 comma 4-bis della L. 537/1993 (come da ultimo sostituito dall’art. 8 comma 1 del DL 16/2012 conv. L. 44/2012), secondo cui, nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6 comma 1 del TUIR, “non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale”.
In tal modo, dunque, il legislatore, con una norma di portata eccezionale, come tale non suscettibile di interpretazione analogica (art. 14 delle preleggi), ha circoscritto l’indeducibilità per fatto illecito a una ben determinata tipologia di spese e di costi: quella funzionale al compimento di delitti dolosi. In assenza di tale collegamento strutturale e finalistico con un delitto doloso, pertanto, deve trovare applicazione il generale criterio dell’inerenza sancito dall’art. 109 comma 5 TUIR.

Il ragionamento della Suprema Corte, peraltro, è criticabile anche per un’altra ragione, che attiene al sistema dei principi che regolano (anche) la materia penale.
Nel motivare la modifica apportata nel 2012 all’art. 14 citato, il legislatore ha chiarito che, in tal modo, si è inteso introdurre una disposizione “più adeguata alla finalità di inibire in modo inequivoco la deducibilità dei componenti negativi di reddito direttamente connessi al compimento delle fattispecie di reato più gravi, evitando che tale indeducibilità possa essere letta come una sanzione impropria, venendo invece la stessa inquadrata come regola generale nell’ambito della determinazione del reddito imponibile”. Coerentemente con questa finalità, dunque, da un lato, sono state “circoscritte le ipotesi di indeducibilità ai soli costi e spese relativi a beni o prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale”; dall’altro, l’indeducibilità è stata esclusa “per i delitti colposi in ragione della non intenzionalità della condotta e quindi del difetto di finalizzazione dei costi eventualmente sostenuti al compimento dei delitti” (Relazione al Ddl. di conversione del DL 16/2012).

È dunque evidente che le soluzioni a cui è pervenuta la Suprema Corte, traducendosi nell’implicita abrogazione dell’art. 14 comma 4-bis della L. 537/1993, contrastano con la finalità perseguita dal legislatore di impedire che al fatto illecito vengano ricollegati effetti sanzionatori diversi e maggiori rispetto a quelli espressamente previsti ex lege (art. 25 Cost.). Con il che le conclusioni prospettate, oltre che contraddire l’assetto normativo vigente, si pongono in contrasto con i principi sanciti tanto dalla Costituzione (artt. 325 e 27), quanto dalla Convenzione EDU (artt. 6 e 7, e art. 4, prot. VII), quanto, infine, dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza), che non solo sottopongono la materia delle sanzioni lato sensu punitive al principio di stretta riserva di legge, ma impongono di garantirne l’applicazione entro i parametri di prevedibilità e proporzionalità rispetto alla gravità del fatto commesso; parametri non a caso utilizzati dal legislatore per motivare la riforma attuata nel 2012.

Con particolare riferimento al principio di proporzionalità delle sanzioni, sancito dall’art. 49 della Carta di Nizza, è importante segnalare la pronuncia della Corte di Giustizia Ue dell’8 marzo 2022 (causa C-205/20), con cui è stato affermato che si tratta di un principio generale del diritto dell’Unione, come tale vincolante per gli Stati membri in relazione a tutti i settori di attuazione di atti europei.

Sicché, in definitiva, con le sentenze qui richiamate, la Cassazione non solo si è posta in contrasto con il diritto interno, ma rischia di porsi in rotta di collisione con i principi costituzionali ed eurounitari che regolano la materia delle sanzioni, lato sensu, punitive. C’è da sperare che, anche questa volta, valga il detto “una rondine non fa primavera”.