Occorre anche un’attitudine dissimulatoria propria dell’attività di reimpiego

Di Maurizio MEOLI

Il mero trasferimento di beni (nella specie un’intera azienda) senza adeguato corrispettivo da una società in procinto di fallire in favore di un’impresa operativa, riconducibile ai medesimi soggetti, rileva certamente come bancarotta per distrazione, ma non anche come autoriciclaggio, in assenza di qualsiasi attitudine dissimulatoria della provenienza delittuosa dei beni stessi.
A ribadire il principio è la sentenza n. 4294/2022 della Cassazione (cfr. Cass. n. 38919/2019).

In linea generale, osserva innanzitutto la Suprema Corte, non si ravvisano elementi che possano precludere la configurabilità della fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione (sia post che pre fallimentare) quale reato presupposto del delitto di autoriciclaggio di cui all’art. 648-ter.1 c.p.; ciò, chiaramente, in presenza di tutti gli elementi costitutivi di tale ultima fattispecie.

Occorre, quindi, considerare che le condotte del reato di autoriciclaggio sono l’impiegare, il sostituire e il trasferire il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione del reato presupposto in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. In pratica, ci si trova in presenza della reimmissione delle utilità provenienti dal reato presupposto in canali economici legali.

Tali attività, peraltro, devono affiancarsi agli ulteriori elementi di fattispecie e, in particolare, alla previsione secondo la quale le condotte devono essere poste in essere “in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.

Sono, quindi, da considerare quei comportamenti che, seppure non riconducibili allo schema degli artifici o dei raggiri, manifestano, comunque, una loro capacità di rendere obiettivamente difficoltosa l’individuazione dell’origine illecita dei proventi.
L’utilizzo dell’avverbio “concretamente” non solo rimanda ad un accertamento oggettivo della idoneità del comportamento a creare un ostacolo, ma implica anche una valutazione del singolo caso alla luce di tutti i fattori dai quali desumere l’attitudine della condotta a creare l’ostacolo dell’identificazione della provenienza illecita dei beni (cfr. Cass. n. 36121/2019).

Peraltro, non è punibile il soggetto che si limiti a utilizzare o godere personalmente, ovvero in modo diretto, dei beni provento del reato presupposto, senza compiere su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza illecita (cfr. Cass. n. 13795/2019).
Dalla valutazione complessiva degli elementi di fattispecie emerge come ci si trovi in presenza di un reato plurioffensivo (perché, contestualmente, consolida la lesione del patrimonio della vittima del reato presupposto e lede l’amministrazione della giustizia e l’economia pubblica nel suo insieme), che si affranca da quello che, prima della sua introduzione, era stato considerato un post factum non punibile, e che, comunque, esclude qualsiasi violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.

Ed allora, per configurare, accanto alla bancarotta per distrazione di beni dell’impresa poi fallita, anche il delitto di autoriciclaggio, non basta il mero impiego di quegli stessi beni in attività imprenditoriali, ma occorrono altresì gli ulteriori elementi specificamente descritti (cfr. Cass. n. 38919/2019).

Tutto ciò rileva anche in caso di distrazione prefallimentare, ovvero connotata da un’attività illecita posta in essere prima della dichiarazione di fallimento e, quindi, ancora in assenza dell’integrazione del reato presupposto fallimentare.
Il delitto di autoriciclaggio, infatti, deve ritenersi configurabile nelle ipotesi di distrazioni fallimentari compiute prima della dichiarazione di fallimento in tutti i casi in cui tali distrazioni erano già qualificabili come appropriazione indebita ex art. 646 c.p.; ciò in ragione del rapporto in cui si trovano il delitto di appropriazione indebita (aggravato e quindi anche procedibile d’ufficio) e il delitto di bancarotta patrimoniale, dove il secondo assorbe il primo (ai sensi dell’art. 84 c.p.) quando la società a danno della quale l’agente ha realizzato la condotta appropriativa (che diviene distrattiva) venga dichiarata fallita secondo una evidente progressione criminosa (cfr. Cass. n. 1203/2020).

Tutto ciò premesso in termini generali – ammettendosi, quindi, la configurabilità del concorso tra le due fattispecie di reato in questione (ben potendo le attività distrattive compiute prima del fallimento inserirsi nella progressione criminosa che parte dalla appropriazione indebita) – la decisione in commento sottolinea come, nel caso di specie, non sia configurabile alcun concorso tra i reati in questione.

Infatti, in aggiunta alla condotta certamente distrattiva – di trasferimento del complesso aziendale dalla società fallita ad una società beneficiaria riconducibile ai medesimi soggetti e, sostanzialmente, in assenza di corrispettivo – non si ravvisa alcuna modalità tale da ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza illecita dei beni reimpiegati.
L’attività “migratoria” dei beni, infatti, risultava palese (emergendo dalle fatture, dal mutamento dell’oggetto sociale della società beneficiaria e dalla migrazione della clientela), mentre la simulazione restava ancorata alla condotta distrattiva.