La «decadenza» derivante dalla percentuale deliberativa esclude anche il risarcimento

Di Maurizio MEOLI

Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 3099 del 22 febbraio scorso, fornisce una serie di importanti chiarimenti in ordine all’impugnabilità delle delibere assembleari da parte degli amministratori, sia in generale che con particolare riguardo a quelle aventi a oggetto l’esercizio, nei loro confronti, di azioni di responsabilità implicanti, quale effetto automatico ex art. 2393 comma 5 c.c., la revoca degli stessi.

Si evidenzia, in primo luogo, come le deliberazioni assembleari non conformi alla legge o allo statuto non siano impugnabili dai singoli componenti del CdA, ma dall’organo amministrativo nel suo complesso. Si tratta, infatti, di un potere collegiale e non individuale dei singoli componenti dell’organo. Inoltre, proprio perché attribuito all’organo nel suo complesso, l’esercizio del potere di impugnazione richiede, a monte, una decisione del consiglio che attribuisca anche il mandato a un professionista scelto collegialmente. Tale principio vale anche nel caso in cui la deliberazione abbia a oggetto l’autorizzazione all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità nei confronti di (tutti) i componenti del CdA con revoca di essi (o meglio, come si vedrà a breve, decadenza) ai sensi dell’art. 2393 comma 5 c.c.

Se è vero, infatti, che l’assemblea può revocare l’amministratore in qualsiasi momento, è anche vero che la relativa deliberazione deve essere adottata nel rispetto delle procedure dettate per tutte le deliberazioni assembleari e che l’interesse a una corretta formazione delle decisioni degli organi societari costituisce un interesse diretto, non solo per lo stesso amministratore revocato, ma anche per la società stessa. In presenza di un organo collegiale, quindi, la legittimazione all’impugnazione di tale delibera non correttamente formata spetta al CdA e non al singolo amministratore.

Una volta che il potere in argomento è riconosciuto all’organo nel suo complesso, risulta irrilevante la circostanza che tutti i componenti del consiglio abbiano impugnato la medesima deliberazione introducendo giudizi separati. Così operando, infatti, essi non hanno agito quale organo della società, ma hanno manifestato l’intenzione di agire non già complessivamente (ovvero collegialmente), ma individualmente.

Rispetto a ciò non rileva:
– la circostanza che ciascun componente dell’organo dovrebbe dirsi libero di scegliere un proprio difensore di fiducia (circostanza questa, osserva la decisione in commento, che già di per sé manifesta come gli amministratori abbiano agito individualmente), perché anche la nomina del difensore non è rimessa a una scelta individuale del singolo amministratore, ma a una decisione collettiva dell’organo;
– il fatto che i giudizi siano stati successivamente riuniti, perché la riunione dei procedimenti consente la trattazione congiunta di domande che restano comunque autonome e distinte, non “unificandosi” al fine di modificare i presupposti processuali (e quindi la legittimazione) in capo ciascun attore;
– la configurabilità di un diverso interesse individuale degli amministratori rispetto alla rimozione della delibera impugnata, per la parte relativa alla loro revoca. Ciò in quanto, da un lato, nella specie, la revoca non è l’oggetto della delibera, ma l’effetto automatico dell’applicazione dell’art. 2393 comma 5 c.c., e, dall’altro, perché è esclusa qualsiasi rilevanza dell’interesse individuale dell’amministratore revocato (e quindi della relativa legittimazione) quando siano in gioco solo vizi procedimentali della delibera, e non “una lesione della propria individuale posizione giuridica soggettiva”, con conseguente carenza di interesse all’impugnazione.

Con particolare riguardo alla previsione di cui all’art. 2393 comma 5 c.c., poi, la decisione in commento sottolinea come essa venga a concretizzare una “decadenza” comminata dalla legge, cui è attribuito il valore legale della “revoca”, fondata sulla presunzione “assoluta” che il voto sull’azione di responsabilità prestato da una frazione non trascurabile del capitale sociale (almeno 1/5) implichi o sottintenda la lesione del vincolo fiduciario che lega i gestori ai soci.

Da tale circostanza consegue che, in tal caso, sussiste sempre una giusta causa di revoca (o meglio di decadenza), con esclusione di qualsiasi diritto al risarcimento del danno in favore dell’amministratore (contra Trib. Palermo 30 luglio 2015). Eventuali pretese risarcitorie, peraltro, potrebbero essere avanzate all’esito del giudizio di responsabilità qualora risultasse l’infondatezza della pretesa e la stessa fosse configurata quale fonte di conseguenze pregiudizievoli.

A ogni modo, concludono i giudici romani, nel caso di specie, qualsiasi possibile pretesa di risarcimento sarebbe destinata a cadere nel vuoto, dal momento che, alla luce dei principi enunciati in materia, si ritiene che la mancata approvazione del progetto di bilancio predisposto dagli amministratori (in concreto verificatasi) costituisca, in sé, una giusta causa di revoca degli amministratori. È ritenuto evidente, infatti, come simile evento pregiudichi l’affidamento dei soci nelle attitudini e nelle capacità dei propri amministratori, così compromettendo il rapporto fiduciario tra le parti.
Obiter dictum, quest’ultimo, che appare discutibile, quanto meno per la sua estrema genericità.