La violazione del divieto del patto leonino è configurabile solo se si alterano la struttura e la funzione del contratto sociale

Di Maurizio MEOLI

Le opzioni put e call non sono limitabili ai soli derivati finanziari in ambito borsistico, ben potendo trovare collocazione in patti parasociali conclusi tra i soci di una società. In tale ambito, poi, l’eventuale violazione del divieto di patto leonino, ex art. 2265 c.c., viene in rilievo solo quando si finisca per alterare la struttura e la funzione del contratto sociale, senza che possa assumere rilievo il mero trasferimento del rischio puramente interno fra soci. A stabilirlo è l’ordinanza n. 27227 della Corte di Cassazione, depositata ieri.

Si ricorda, in primo luogo, quanto precisato dalla sentenza 19 gennaio 2016 n. 763 della Suprema Corte in materia di opzioni call o put. Le call options sono contratti in cui l’acquirente acquista, con il pagamento del premio, il diritto, ma non l’obbligo, di acquistare un determinato bene a un prezzo specifico. Le put options sono, invece, contratti in cui l’acquirente acquista, con il pagamento del premio, il diritto, ma non l’obbligo, di vendere un determinato bene a un prezzo specifico. L’acquisto di un’opzione call è uno strumento finanziario utilizzato quando l’investitore ha delle aspettative al rialzo sul titolo sottostante; la differenza che esiste tra l’acquisto di quest’ultimo e quello dell’opzione consiste nel fatto che acquistando il titolo sottostante si incorre nel rischio di subire perdite anche consistenti, in caso di ribasso delle quotazioni, mentre con le opzioni il rischio di perdita massima è pari al premio pagato.

Inoltre, è possibile sfruttare l’effetto leva che permette di amplificare i guadagni. Questi strumenti, infatti, subiscono variazioni di prezzo maggiori rispetto a quelle dei loro titoli sottostanti. Per un’opzione call l’effetto leva esprime il rialzo del prezzo dell’opzione rispetto ad una variazione percentuale del prezzo del sottostante titolo. Viceversa, nel caso di una opzione put, l’effetto leva esprime il rialzo dell’opzione per un ribasso percentuale del titolo sottostante.

Il premio dell’opzione è il prezzo che paga il beneficiario di essa per assicurarsi il diritto di acquistare o vendere un determinato bene e varia in base al valore del bene correlato, all’accordo delle parti, alla scadenza prevista, all’andamento del mercato (la volatilità) e all’andamento dei tassi di interesse.

La differenza fondamentale tra opzioni e altri strumenti derivati, quindi, consiste nella definizione dei diritti del possessore, che non è obbligato ad acquistare/vendere il sottostante, ma può farlo se, esercitando l’opzione, ne trae un’effettiva convenienza economica. Per tale ragione sono anche detti titoli “derivati asimmetrici”.

La decisione in commento sottolinea come tale argomentare del precedente di legittimità renda evidente come il meccanismo tecnico-giuridico delle opzioni non sia confinabile ai derivati finanziari in ambito borsistico, ben potendo i patti parasociali contenere i medesimi meccanismi, seppure limitati ai soci di una società.
L’accordo del caso di specie, quindi, pur non riguardando strumenti negoziati su mercati regolamentati, non può dirsi nullo per assenza di causa.

E neppure può reputarsi tale per violazione del divieto di patto leonino ex art. 2265 c.c.
Perché ciò accada, infatti, occorre non solo che l’esclusione dalle perdite o dagli utili sia una situazione “assoluta e costante” (cfr. Cass. n. 17498/2018 e Cass. n. 8927/1994), ma anche che tale esclusione finisca per alterare la causa societaria nei rapporti con l’ente-società, che passa – in relazione al socio interessato dall’esonero dalla condivisione dell’esito dell’impresa collettiva – da rapporto associativo a rapporto di scambio con l’ente stesso.

L’assolutezza e la costanza che devono connotare la violazione del divieto, quindi, con il loro riferirsi alla quantità e alla durata nel tempo dell’esonero, servono solo a sottolineare la necessità di una mutazione causale. In altri termini, il punto è se la causa societatis del rapporto partecipativo del socio in questione permanga invariata nei confronti dell’ente collettivo, o se, invece, venga irrimediabilmente deviata dall’esonero da qualsiasi perdita o dall’esclusione dalla divisione degli utili, o da entrambi; perché solo in questo caso può configurarsi la violazione del divieto dell’art. 2265 c.c. La cui ratio, pertanto, è da ravvisare nella necessità di suddividere i risultati dell’impresa economica, quale connotazione propria dell’intera compagine sociale, con rilievo reale verso l’ente collettivo. Non presenta significato, invece, il trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo, quando non alteri la struttura e la funzione del contratto sociale, né modifichi la posizione del socio in società, e, dunque, non abbia nessun effetto verso la società stessa.

Nel caso di specie, allora, è confermata la legittimità dell’opzione sottoscritta dai due soci di una società alla luce, da un lato, della sua sinallagmaticità, permettendo ad una parte di rientrare dal finanziamento partecipativo ed all’altra di lucrare i maggiori profitti dell’investimento, e, dall’altro, della sua natura temporanea; il tutto nell’intento di rendere possibile l’affare intrapreso, regolando efficacemente i rispettivi interessi.