Per la Cassazione non può essere ritenuto di per sé gravemente imprudente un approccio votato alla prospettiva di un superamento della crisi

Di Maria Francesca ARTUSI

Per affermare la responsabilità dei componenti del collegio sindacale per il reato di bancarotta semplice è necessario un accertamento accurato e in concreto degli effettivi doveri/poteri dei sindaci e delle iniziative poste in essere a salvaguardia della società. In particolare, non può essere considerata, a priori, gravemente imprudente la scelta di interloquire con il consiglio di amministrazione senza attivare l’assemblea o gli organi giudiziari.

Sposando tale linea garantista, una recente sentenza della Cassazione (la n. 28848 del 19 ottobre scorso) ha annullato la condanna di due sindaci a cui era contestato di avere concorso — ex art. 224 comma 1 n. 1) del RD 267/42 — nella bancarotta semplice degli amministratori, i quali avevano aggravato il dissesto delle tre società astenendosi dal richiederne il fallimento, nonostante la situazione di insolvenza in cui esse si trovavano (art. 217 comma 1 n. 4 del RD 267/42). Tale responsabilità veniva fondata sull’art. 40 comma 2 c.p., sulla base dell’omessa convocazione dell’assemblea dei soci per denunziare le gravi irregolarità commesse dagli amministratori (secondo il disposto di cui all’art. 2406 comma 2 c.c.) e di presentare al Tribunale denunzia ex art. 2409 comma 7 c.c. chiedendo la revoca degli amministratori e la nomina di un amministratore giudiziario.

La Cassazione fissa l’iter con cui è possibile accertare una tale responsabilità, che nel caso di specie i giudici di merito non avevano correttamente percorso.
Tale itinerario avrebbe dovuto muovere necessariamente dalla verifica circa la sussistenza dei presupposti per la richiesta, da parte dell’organo amministrativo, di “autofallimento” che si assume omessa; vale a dire dalla verifica se le società si trovassero in una situazione di insolvenza rilevante ai sensi della legge fallimentare, se avessero, cioè, dato luogo ad “inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

Non solo: sarebbe stato altresì necessario verificare se tale ritardo fosse dovuto a colpa grave dell’organo amministrativo. La giurisprudenza, infatti, ha ripetutamente affermato il principio secondo cui, per l’integrazione della fattispecie, è richiesto tale coefficiente soggettivo, superando, così, le difficoltà interpretative legate all’ambiguità della norma, che vede l’indicazione della “altra colpa grave” dopo quella della mancata richiesta di fallimento, così apparentemente contrassegnando solo le condotte diverse da quella della mancata richiesta del fallimento in proprio. Si è escluso, di contro, che tale coefficiente soggettivo sia insito nello stesso ritardo nella richiesta di fallimento, negandosi la sussistenza di una presunzione in tal senso (Cass. n. 18108/2018).

Inoltre, l’omessa dichiarazione di fallimento, per essere rilevante ai fini della bancarotta semplice avrebbe dovuto anche determinare un aggravamento del dissesto delle società, che è l’evento del reato.
Una volta vagliata la sussistenza oggettiva e soggettiva della fattispecie “base” di cui all’art. 217 del RD 267/42 e venendo alla posizione dei sindaci quali titolari di un potere di controllo e non di attivazione diretta, sarebbe stato essenziale verificare se i sindaci fossero in condizione di conoscere la reale situazione delle società ovvero, in altri termini, se fossero emersi segnali di allarme, percepibili dall’organo di controllo, che avrebbero dovuto indurli a comprendere che le società non fossero semplicemente in crisi, ma che si fosse determinata una situazione di insolvenza rilevante ex art. 5 del RD 267/42.

In caso positivo, si passa ad un giudizio “controfattuale”, che consiste nella valutazione se, qualora le attività che si assumono omesse fossero state poste in essere, l’evento del reato – vale a dire l’aggravamento del dissesto – si sarebbe ugualmente verificato.

Vero è che l’obbligo di vigilanza del collegio non si risolve in una mera verifica contabile limitata alla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, richiedendo un riscontro tra la realtà effettiva e la sua rappresentazione contabile; ma va comunque tenuto conto degli atti effettivamente a disposizione dei sindaci. Nel caso di specie, si trattava di atti che potevano non essere a conoscenza del collegio sindacale, sia perché non a quest’ultimo indirizzati (ad es. le interlocuzioni tra revisori contabili, il direttore e il consiglio di amministrazione), sia perché frutto di un’elaborazione successiva all’inizio delle procedure concorsuali e portatori di un patrimonio conoscitivo certamente ricostruito a posteriori (si pensi alle considerazioni del commissario giudiziale o dei curatori), mentre sarebbe stato necessario effettuare un’istantanea della situazione conoscibile ai sindaci in quei mesi.

In definitiva non può essere ritenuto di per sé gravemente imprudente un approccio votato alla prospettiva di un superamento della crisi, affrontandola mediante le attività di stimolo rivolte al consiglio di amministrazione e non a mezzo del coinvolgimento dell’assemblea o del Tribunale.