Non è necessaria la sussistenza dei presupposti per la brevettabilità, ex art. 2585 c.c., della scoperta o dell’applicazione rivelata

Di Maria Francesca ARTUSI

Il “know how” di un’azienda è tutelato anche in sede penale, attraverso la previsione del reato di rivelazione di segreti commerciali nell’art. 623 c.p. Questa norma ha, infatti, come sua origine l’interesse a che non vengano divulgate notizie attinenti ai metodi che caratterizzano la struttura industriale (il c.d. know how, appunto): vale a dire – secondo la definizione da tempo affermata dalla giurisprudenza di legittimità – quel patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio, la manutenzione di un apparato industriale (Cass. n. 25008/2001).

Ci si riferisce, con tale espressione, a una tecnica, o una prassi o, oggi, prevalentemente, a una informazione, frutto di esperienze e ricerca accumulatesi negli anni e capace di assicurare all’impresa un vantaggio competitivo, e quindi un’aspettativa di un maggiore profitto economico. Si tratta di un patrimonio di conoscenze il cui valore economico è parametrato all’ammontare degli investimenti (spesso cospicui) richiesti per la sua acquisizione e al vantaggio concorrenziale che da esso deriva, in termini di minori costi futuri o maggiore appetibilità dei prodotti. Esso si traduce, in ultima analisi, nella capacità dell’impresa di restare sul mercato e far fronte alla concorrenza. L’informazione tutelata dalla norma in questione è, dunque, un’informazione dotata di un valore strategico per l’impresa, dalla cui tutela può dipendere la sopravvivenza stessa dell’impresa.

Così si esprime la Cassazione nella sentenza n. 16975, depositata ieri, confermando la condanna per il delitto di rivelazione di segreti ai sensi dell’art. 623 c.p. di alcuni ex dipendenti di un società di progettazione, costruzione e commercializzazione di apparecchiature meccaniche, elettroniche e informatiche.

In sostanza, gli imputati, usando conoscenze software acquisite durante il rapporto di collaborazione con tale società, e avvalendosene in modo sleale, hanno potuto comprimere al massimo i tempi di realizzazione di un prodotto fortemente concorrenziale (una chiave dinamometrica collegata ad un sofisticato software, utile in particolare nell’industria automobilistica, molto simile a quella messa a punto dalla società in questione), senza incorrere negli errori nei quali normalmente si imbatte chi affronta nuove realizzazioni, con conseguente notevole vantaggio patrimoniale a discapito della concorrenza.

L’aver sfruttato la “combinazione” dei dati, frutto della esperienza pluriennale presso il precedente datore di lavoro, ha consentito a costoro di beneficiare del vantaggio temporale connesso ai tempi della ricerca e della sperimentazione – di cui neppure hanno dovuto sopportare i costi – vantaggio che, in un sistema capitalistico sempre più connotato dalla velocità, e dalla rapida obsolescenza dei prodotti industriali, assume decisiva rilevanza valoriale del know how, ovvero del “patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove” (art. 1 del regolamento Ce 772/04 relativo all’applicazione dell’art. 81 par. 3 del trattato Ce a categorie di accordi di trasferimento tecnologico).

I giudici di legittimità precisano, altresì, che in tema di delitti contro la inviolabilità dei segreti, non è necessaria la sussistenza dei presupposti per la brevettabilità, ex art. 2585 c.c., della scoperta o dell’applicazione rivelata (Cass. n. 11965/2010). In altre parole, ai fini della tutela penale del segreto industriale, la novità (intrinseca o estrinseca) e l’originalità non sono requisiti essenziali, poiché non espressamente richiesti dal disposto legislativo e perché l’interesse alla tutela penale della riservatezza non deve necessariamente desumersi da questi attributi delle notizie protette.

D’altro canto, non è possibile operare una assimilazione tra il segreto di cui all’art. 623 c.p. e le informazioni segrete aziendali come disciplinate dal codice della proprietà industriale (art. 98 del DLgs. 30/2005).
Come si è detto, il reato in esame tutela il “segreto industriale” inteso in senso lato, ovvero “quell’insieme di conoscenze riservate e di particolari modus operandi in grado di garantire la riduzione al minimo degli errori di progettazione e realizzazione e dunque la compressione dei tempi di produzione” (cfr. la già citata Cass. n. 25008/2001).

Il know-how aziendale viene, così, fatto rientrare nel campo di applicazione del reato di rivelazione di segreti, in quanto riconducibile all’elastica nozione di “applicazione industriale”, oggi assimilabile all’espressione “segreto commerciale” (secondo quanto espressamente introdotto nell’art. 623 c.p. dall’art. 9 comma 3 del DLgs. 63/2018).