Dopo la sentenza della Consulta n. 194/2018 sono state sollevate altre questioni di legittimità della disciplina del contratto a tutele crescenti

Di Luca NEGRINI

Le norme del DLgs. 23/2015, che hanno introdotto il contratto a tutele crescenti, differenziando la disciplina del licenziamento per i dipendenti assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015, continuano a sollevare dubbi sulla loro compatibilità con la nostra Costituzione e con l’ordinamento comunitario, anche dopo l’intervento della Corte Costituzionale dello scorso anno, che aveva dichiarato incostituzionale l’art. 3, comma 1 del DLgs. 23/2015 nella parte in cui stabiliva in misura fissa in ragione d’anno l’importo che il giudice poteva riconoscere al lavoratore qualora la risoluzione del rapporto di lavoro non fosse assistita da una giusta causa o da un giustificato motivo oggettivo.

Dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 spetta quindi al giudice fissare in modo discrezionale l’importo dell’indennizzo a favore del lavoratore licenziato ingiustamente, tra un minimo di 6 e un massimo di 36 mensilità, fatti salvi i casi di nullità del licenziamento e di insussistenza del fatto contestato sul piano disciplinare, per i quali continua ad essere prevista la reintegrazione.
In quell’occasione la Corte aveva ritenuto di non potersi pronunciare sull’analoga disciplina contenuta nell’art. 4 del DLgs. 23/2015, che riguarda i vizi formali e procedurali del licenziamento, perché la questione non era rilevante nel giudizio in cui era stata sollevata, trattandosi di una causa nella quale la risoluzione del rapporto di lavoro era contestata solo per motivi di sostanza e non di forma.

Proprio in relazione all’art. 4 citato interviene ora il Tribunale di Bari, con l’ordinanza n. 214/2019 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale nei primi giorni di dicembre, per sollevare la questione di costituzionalità del meccanismo che impone di riconoscere al lavoratore il cui licenziamento sia viziato sul piano formale un indennizzo in misura fissa, commisurato all’anzianità di servizio, seppure in misura pari alla metà di quanto previsto dall’art. 3 del DLgs. 23/2015.
Il giudice barese chiede alla Corte Costituzionale di espungere dal testo dell’art. 4 le parole “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, attribuendo così anche in questo caso al giudice il potere di fissare l’indennizzo tra il minimo ed il massimo, che in questo caso sono rispettivamente 2 e 12 mensilità.

È assai probabile che le medesime ragioni che hanno spinto i giudici costituzionali a dichiarare incostituzionale il meccanismo automatico previsto dall’art. 3 determinino anche una dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 4. Se così sarà, anche quando il licenziamento è viziato sul piano formale spetterà al giudice stabilire l’indennizzo tra il minimo ed il massimo e cambieranno solo i parametri cui dovrà attenersi.

Nella sentenza n. 194/2018 tali parametri erano stati individuati dalla Corte in quelli previsti dall’art. 8 della L. 604/66 e dall’art. 18, comma 5 della L. 300/70 (anzianità di servizio, ma anche numero dei dipendenti, dimensioni dell’impresa, comportamento e condizioni delle parti). Per i vizi formali il riferimento sarà necessariamente quello relativo alla gravità della violazione formale o procedurale commessa, previsto dall’art. 18, comma 6 della L. 300/70 per i rapporti di lavoro sorti prima del 7 marzo 2015.

Anche sulla disciplina del licenziamento collettivo, prevista dall’art. 10 del DLgs. 23/2015, è stata sollevata un’altra questione di legittimità costituzionale, questa volta dalla Corte d’Appello di Napoli, con un’ordinanza del 18 settembre 2019, non ancora pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, secondo cui la disparità di regime cui sono soggetti i dipendenti coinvolti in una medesima procedura di licenziamento collettivo si porrebbe in contrasto con gli artt. 34243541 e 111 Cost., essendo irragionevole un diverso regime sanzionatorio collegato esclusivamente al fatto di essere stati assunti prima o dopo il 7 marzo 2015. Per i giudici di Napoli, la norma in materia di licenziamento collettivo sarebbe anche in contrasto con l’art. 76 Cost., in quanto la legge delega 183/2014 riguardava solo i licenziamenti individuali e non quelli collettivi.

La Corte d’Appello di Napoli, così come già in precedenza il Tribunale di Milano, con un’ordinanza del 5 agosto 2019, hanno poi posto in dubbio la conformità delle norme sanzionatorie sui licenziamenti collettivi contenute nel DLgs. 23/2015 con l’ordinamento comunitario, rimettendo la questione alla Corte di Giustizia Ue.

Sorge spontaneo chiedersi se, visto il susseguirsi di pronunce sul tema, ragioni di certezza, ma anche di semplificazione, non rendano opportuno un intervento legislativo che anticipi le prossime pronunce dei giudici costituzionali e comunitari, per riscrivere una disciplina unitaria ed organica in materia di licenziamento.